I toni della «nuova» politica

Nell’attuale crisi della democrazia rappresentativa si fa largo un populismo di stampo nazionalistico con accenti duri, in un contesto in cui il cittadino va spesso a votare senza un’adeguata base di conoscenza dei problemi
/ 01.10.2018
di Alfredo Venturi

La tentazione spesso è forte, ma bisogna andarci piano con le condanne senza appello degli «ismi» che affollano le cronache politiche. La storia insegna per esempio che il populismo, oggi al centro di un’attenzione internazionale non di rado critica, ha molte facce, e secondo Francis Fukuyama non è sempre necessariamente un fenomeno deteriore. Il politologo americano che celebrò prematuramente la fine della storia dopo la caduta del muro di Berlino e il collasso dell’Unione Sovietica, ricorda in una recente intervista al «Corriere della Sera» che è esistito anche un populismo costruttivo. Per esempio ebbe caratteri populistici la rivolta delle tredici colonie britanniche d’America, contro la burocrazia tributaria di Londra e la soggezione coloniale, che portò alla nascita degli Stati Uniti. Quasi due secoli più tardi un’impronta populistica animerà le politiche anti-crisi del presidente Franklin Delano Roosevelt che salveranno l’America dalla voragine della grande depressione.

Il fenomeno si è affacciato alla ribalta della storia con modalità assai disparate. Dal bonapartismo plebiscitario dei due imperatori francesi al populismo russo che creò le premesse della rivoluzione, dal peronismo dei descamisados argentini al bolivarismo del venezuelano Hugo Chávez, fino a un populismo di destra che facilmente sconfina nel nazionalismo. Cioè in un’altra controversa categoria politica che per quanto screditata dalle tragiche esperienze del Novecento può anche realizzarsi in una versione liberale, non aggressiva, autorevole senza essere autoritaria. Siamo di fronte a formule della politica che si prestano alle interpretazioni più diverse. Compresa quella strettamente letterale, che nel caso del populismo viene orgogliosamente sbandierata per depurare il termine da ogni connotazione negativa. Populismo? Ben venga, se significa stare dalla parte del popolo... E così apparentemente il cerchio si chiude, perché proprio il popolo è il protagonista almeno etimologico della democrazia.

C’è chi propone, come il filosofo statunitense Jason Brennan, un passaggio dal governo del popolo a quello di chi possiede la conoscenza: una epistocrazia

Viviamo una stagione storica in cui la continua capitolazione di vecchi schemi ci porta a riconsiderare i fondamenti che parevano inattaccabili della cultura politica. È proprio la democrazia rappresentativa a essere messa in discussione. Il filosofo americano Jason Brennan sostiene che la cognizione di causa dell’elettore medio è così scarsa da mettere in forse la tenuta dei valori democratici. In un saggio lucidamente polemico, Contro la democrazia, propone il passaggio dal governo del popolo a quello di chi possiede la conoscenza: l’«epistocrazia», così la chiama ricorrendo una volta ancora all’eloquente lessico greco. Siamo evidentemente nel campo delle provocazioni o in quello delle utopie: chi dovrebbe scegliere i votanti consapevoli? Con quale legittimazione? Sono domande imbarazzanti ma in fondo non servono risposte, perché della proposta di Brennan quel che conta è la capacità di far riflettere sul fatto che la maggior parte dei cittadini va a votare con un grave difetto di conoscenza, e questo compromette il peso di quella saggezza popolare che dovrebbe animare l’assetto democratico.

Un altro fra i tanti studiosi che si avvicendano al capezzale della politica, lo storico belga David Van Reybrouck, propone addirittura che si rinunci alla ormai vuota liturgia del voto e che si distribuiscano per sorteggio i ruoli nelle amministrazioni e nei governi. Esattamente come si è soliti fare, in molti ordinamenti giudiziari, per la nomina delle giurie popolari. Ora, se è vero che la parte essenziale della gestione del potere è la distribuzione imperativa delle funzioni in una data società, è evidente che affidando questa distribuzione al caso, sia pure all’interno di gruppi di persone che si saranno rese disponibili dimostrando la propria capacità e la propria integrità, si decreterebbe senz’altro la fine della politica così come siamo abituati a considerarla. Del resto la proposta di Van Reybrouck non è certo caduta nel vuoto: per esempio in Italia l’ha fatta propria Beppe Grillo, l’attore comico fondatore del Movimento cinque stelle che oggi fra mille difficoltà condivide il governo del paese. Se il voto produce la «casta», non è meglio ricorrere al caso?

Anche se le risposte sono discutibili, le ragioni di questo terremoto nel pensiero politico sono oggettivamente plausibili. Al fondo di tutto c’è un malessere profondo, che si registra più o meno in tutti i paesi occidentali, una diffusa delusione, una sorda ostilità nei confronti dei governi, dei programmi inattuati, delle promesse mancate. È precisamente questo il brodo di coltura dei populismi. Lo stesso Fukuyama trova del tutto comprensibile la rivolta contro le deludenti élite, anche se considera assolutamente sbagliate le risposte date dai nuovi capi che il fenomeno ha proiettato al potere, dall’americano Donald Trump agli europei Viktor Orban e Matteo Salvini. Il protezionismo e la xenofobia infatti, argomenta l’autore della Fine della storia, sono rimedi peggiori del male che dovrebbero curare. Così come lo è un risorgente nazionalismo negatore di valori che erano dati per scontati, che tende per esempio ad ostacolare fino ad annullare, complici le molte crisi da quella finanziaria a quella migratoria, i progressi fin qui compiuti in materia d’integrazione europea.

Il problema è ulteriormente complicato dal fatto che quella che si vorrebbe in qualche modo rinnovare a questo punto non è più una democrazia, semmai un’oligarchia, secondo la teoria del sociologo inglese Colin Crouch. Infatti, qualunque cosa decidano gli elettori più o meno consapevoli di quello che fanno, le formali strutture democratiche sono ormai stabilmente dominate da detentori del potere reale che si chiamano lobbies, o poteri forti: le grandi multinazionali, l’intreccio degli interessi che nel mondo globalizzato non conoscono frontiere. Sono loro che disponendo di inesauribili risorse finanziarie, controllando i mezzi di comunicazione e usando disinvoltamente gli ambigui meccanismi della rete, esercitano un’influenza pressante sui processi decisionali. Lo fanno mirando a due bersagli: da una parte la massa degli elettori così sensibili ai pregiudizi e facile preda delle fake news (e questo è indiscutibilmente un punto a favore della proposta di Van Reybrouck), dall’altra i governanti. Determinando in questo modo i caratteri di quella che Crouch chiama «post-democrazia».

Tutto questo è percepito abbastanza chiaramente dall’opinione pubblica, e per quanto digiuno di politologia l’elettore medio, già turbato dalle crisi economiche e finanziarie, dall’approfondirsi del baratro fra i pochi detentori della ricchezza e i molti avviati alla povertà, dal vacuo esibizionismo dei politici, da un fenomeno migratorio che gli viene prospettato come potenzialmente catastrofico, dalla visibile paralisi del progresso sociale, insomma da un domani che non potrebbe essere più oscuro, al momento del voto si comporta di conseguenza. Sceglie chi alza i toni incarnando la protesta, promuovendo la rivolta contro la classe politica e le sue colpevoli manchevolezze. Ecco perché il federalismo elettorale americano nonostante un voto popolare minoritario manda Trump alla Casa Bianca, mentre i «sovranisti» europei sognano il grande colpo alle elezioni del maggio 2019: conquistare la maggioranza al parlamento di Strasburgo e distruggere dall’interno ciò che resta dell’Unione, colpevole di non sapersi affrancare dall’immagine di fredda e invadente burocrazia che da tempo mortifica le istituzioni di Bruxelles. 

E così una furente coalizione di populisti e nazionalisti manderebbe in frantumi il grandioso progetto degli Stati Uniti d’Europa.