I segreti di Matteo Messina Denaro

Un ritratto del boss mafioso arrestato settimana scorsa in Italia dopo quasi trent’anni di latitanza e qualche interrogativo sul futuro
/ 23.01.2023
di Alfio Caruso

Gli piacciono le donne (uno dei primi delitti fu per i favori di una bella austriaca), lo champagne Chrystal, gli orologi Rolex Daytona, le sigarette Merit, i videogiochi, il fumetto «Diabolik». Matteo Messina Denaro – il boss arrestato settimana scorsa, il 16 gennaio, dopo quasi trent’anni di latitanza – ha provato a prolungare il mito, fasullo, di una mafia antica, quella che si spacciava per onorata società e pretendeva di definire i propri adepti «uomini d’onore». Malgrado abbia ucciso per futili motivi, commissionato stragi indiscriminate e ordinato di sciogliere nell’acido un ragazzino, Messina Denaro sosteneva di sentirsi un capro espiatorio, si paragonava a Malaussène, il protagonista di Pennac, ci teneva a esibire le proprie letture, si pentiva di non essersi laureato.

A differenza di Riina e Provenzano, semianalfabeti provenienti da una povertà assoluta, Messina Denaro è nato nell’agiatezza. Una famiglia, la sua, in cui il nonno e soprattutto il padre, Ciccio, ne avevano elevato il tono e le conoscenze. E quelle genitoriali andavano dai vecchi compari, che avevano stretto legami fortissimi con Cosa Nostra americana, ai D’Alì, potentissimi imprenditori del trapanese, un membro nel consiglio d’amministrazione della Mediobanca di Cuccia, per mezzo secolo il cuore del capitalismo italiano. Ciccio Messina Denaro ne era diventato l’uomo di fiducia, colui che per conto loro gestiva gli sterminati possedimenti. E non a caso un D’Alì, che nei Governi Berlusconi fu sottosegretario agli Interni, è stato nei mesi scorsi condannato con sentenza definitiva a sei anni di galera proprio per i rapporti con Matteo Messina Denaro.

Lui fin dall’infanzia ha respirato sopraffazione e impunità. La mafiosità è stata la sua educazione: accumulare soldi e potere, incutere un terrore crescente nel prossimo, pretendere il servo encomio, incunearsi nei salotti impudenti, dove i «piccioli» contano più della morale. Allora ecco una delle quattro sorelle sposare un Guttadauro della Palermo capace di mescolare politica, imprenditoria, mafia. Da quasi un secolo i Guttadauro esprimono onorevoli nazionali e regionali, professionisti di grido, boss di alto rango. L’ultimo esponente, Giuseppe, è stato un chirurgo e soprattutto il capo del mandamento di Brancaccio-Ciaculli, fra i più rinomati.

Investigatori e inquirenti hanno fatto il vuoto attorno a Messina Denaro. Nei decenni in cui gli è stata data la caccia sono stati arrestati oltre 300 favoreggiatori; sequestrati e confiscati beni per un paio di miliardi di euro. Non c’è un suo familiare che non sia finito in galera, che non abbia rimediato una condanna per proteggerlo, che non abbia visto il proprio patrimonio buttato all’aria. Si è salvata la donna, Francesca Alagna, anch’essa con parentele di peso, dalla quale nel ’95 ebbe una figlia, Lorenza. Per riuscirci si è dovuta appartare in una condizione quasi monacale, dare il proprio cognome a Lorenza, che divenuta madre si è ben guardata dal dare il nome Matteo al figlio. Un gesto molto patito da Messina Denaro cresciuto nel culto del padre: morto in latitanza fu fatto ritrovare con il vestito più elegante, onorato con un funerale, in cui il sacerdote lo definì un pubblico esempio di civiche virtù, ricordato a ogni anniversario con il necrologio sul «Giornale di Sicilia».

Messina Denaro ha baciato tutte le mani che non poteva tagliare. È stato a disposizione di Riina e Provenzano. Li ha assecondati non per riceverne le insegne del comando, bensì per avere uno spazio di manovra nel territorio natio. Ha sempre saputo che la mafia non si comanda da Trapani, meno che mai dalla provincia (loro sono di Castelvetrano). Finché hanno dominato i corleonesi, li ha spalleggiati in ogni scelta, ha ammazzato e tramato, ha provato a uccidere il conduttore televisivo Maurizio Costanzo, ha pedinato Falcone per sparargli. Mantenendo però una snobistica distanza: loro erano i «viddani», lui era, e più ancora si credeva, un predestinato. Loro frequentavano rozzi parvenu, lui borghesi all’apparenza integerrimi, imprenditori di successo, rappresentanti delle istituzioni, vincitori di elezioni politiche. Il tutto all’ombra della massoneria, che a Trapani gioca in casa, in grado d’influire su ogni nomina, su ogni affare. Così si spiega un patrimonio calcolato in oltre 4 miliardi, frutto degli oculati investimenti nell’eolico, nel turismo, nella grande distribuzione.

Avendo esercitato una supremazia piena di volenterosi esecutori e priva di collaboratori non lascia eredi né di sangue né di militanza. Ha rappresentato un unicum, che le cosche, in special modo dopo l’azzeramento dei corleonesi, hanno subìto, non apprezzato. Nonostante il male e la soperchieria sparsi a piene mani senza mai un pentimento, nella classifica del peggio verrà sempre dietro Riina, Bagarella, Provenzano. Uno schiaffo inaudito per chi nelle lettere scambiate con un agente provocatore dei servizi segreti scriveva: «Un uomo non può cambiare il proprio destino, l’importante è viverlo con dignità, io sono a posto con la coscienza e sono sereno».

La sua cattura sembra frutto di una cristallina indagine intessuta di tanta perizia e di altrettanta tenacia. Ma nell’Italia con il culto della dietrologia la si dipinge, invece, come il malsano accordo fra un malato terminale, cosciente di avere pochissimo da vivere, e apparati che, al riparo della grande impresa, preparano l’ennesima stortura. Per dimostrare la propria buona fede a Messina Denaro si chiede di collaborare con lo svelamento di presunti documenti scottanti. Un castello fin troppo arzigogolato, che dà per scontata l’ipotetica trattativa fra Stato e mafia negli anni Novanta. Viceversa, sono altri i segreti dei quali Messina Denaro potrebbe essere detentore: dall’identità degli insospettabili che appoggiarono gli attentati di Capaci e via D’Amelio, a quella dei complici eccellenti dentro il mondo affaristico. Ma nel modello mafioso seguito fin qui dal boss, chi parla è un infame. Se poi fosse vero che starebbe messo male con i tumori, dove risiederebbe la convenienza?