I no travolgono Renzi

Referendum costituzionale – Il premier rimpiange l’errore di aver legato all’esito popolare il proprio destino politico
/ 12.12.2016
di Alfredo Venturi

Un solo sconfitto, una marea esultante di vincitori. Votando in massa, gli italiani hanno trasformato il referendum sulla riforma costituzionale dettata da Matteo Renzi (foto) in un dramma scespiriano. Da una parte la solitudine del presidente del consiglio: nessuno lo aveva mai visto così, un nodo alla gola, prossimo alle lacrime mentre prende atto della disfatta e annuncia le dimissioni. Dall’altra un assortimento di trionfatori che copre uno spettro amplissimo, da Matteo Salvini che gongola citando Marine e Marion Le Pen ed evoca il trionfo della destra europea, fino a chi festeggia intonando «Bella Ciao», il canto della guerra partigiana. E ancora: Silvio Berlusconi redivivo che con la consueta autostima si appropria il risultato: «sono stato determinante, con la mia sola presenza ho spostato almeno il cinque per cento dei voti». E poi Massimo D’Alema, oppositore interno al Partito democratico, che osserva compiaciuto: «gli sarà passata la voglia di rottamare». Infine un euforico Beppe Grillo che dichiara i suoi pronti per governare e dunque invoca elezioni immediate.

Grillo e Salvini scalpitano per votare subito, vogliono passare all’incasso, lo stesso Renzi sognava di capitalizzare con nuove elezioni la massa pur sempre rispettabile dei sì. Ma l’incertezza sulla legge elettorale complica la prospettiva. La norma attuale denominata Italicum, un sistema a doppio turno con premio di maggioranza alla lista che supera il quaranta per cento oppure ballottaggio fra le prime due, vale per la Camera dei deputati ma non per il Senato. Sulla legge pende il giudizio della Corte costituzionale, che si pronuncerà il 24 gennaio, ma secondo i fautori delle elezioni anticipate è comunque vigente e può portare il Paese al voto. Altri invocano una nuova legge, non a caso Renzi l’aveva promessa accettando di modificare l’Italicum, per placare le ansie di chi vedeva nella riforma un eccessivo rafforzamento dei poteri dell’esecutivo.

Sembra caduta nel vuoto una pronuncia del Consiglio d’Europa, secondo cui ogni innovazione elettorale dovrebbe vedere la luce almeno un anno prima del voto, per evitare che venga ritagliata sulle esigenze politiche del momento. Che è esattamente quanto si prospetta: non a caso Berlusconi preme per un ritorno al proporzionale puro, perché quello corretto dell’Italicum, nell’attuale assetto tripolare del panorama politico italiano, centro-destra, centro-sinistra e Cinque stelle ciascuno dei quali attorno al trenta per cento, potrebbe assicurare il successo proprio ai candidati grillini, favoriti nel probabile ballottaggio dalle pulsioni anti-sistema dell’opinione pubblica. Non è un caso che Grillo abbia tanta fretta di votare.

Ora la parola è al presidente della repubblica Sergio Mattarella: per prima cosa ha invitato Renzi, che voleva immediatamente gettare la spugna, a rinviare le dimissioni di un paio di giorni: bisogna prima approvare la legge finanziaria. Poi ha frenato la sua propensione a elezioni in tempi ravvicinati. Mattarella dovrà promuovere un governo che funzioni di fronte alle molte crisi che affliggono il Paese, dall’economia alla pressione migratoria, dall’occupazione ai rapporti con l’Unione Europea. E che riformi la legge elettorale. Potrà essere un governo di «responsabilità nazionale» che superi gli steccati fra i partiti per affrontare le emergenze o un esecutivo di più basso profilo che si limiti a traghettare il Paese verso il voto. Per la presidenza si fanno i nomi dei ministri Pier Carlo Padoan, Graziano Delrio e Paolo Gentiloni, responsabili rispettivamente dell’economia delle infrastrutture e degli esteri, e quello dello speaker del Senato Pietro Grasso. Ma lo stesso premier dimissionario potrebbe rientrare in gioco per un incarico a termine.

Sopraffatto dal voto popolare e stordito dall’ampiezza del dissenso, quasi il sessanta per cento contro poco più del quaranta, Renzi sicuramente rimpiange l’errore commesso all’inizio della campagna elettorale, quando legò all’esito del voto il proprio destino politico. Poi ci ripensò, ma la sua martellante presenza in ogni canale televisivo trasformò di fatto il referendum in un plebiscito sul governo e su chi lo guidava. «Non credevo che tanta gente mi odiasse», ha confidato ai collaboratori la sera del verdetto. Più che di odio, si tratta d’insofferenza per quel suo presenzialismo eccessivo, che può avere indotto al voto di protesta chi trovava inaccettabile il rapporto fra la realtà percepita sulla propria pelle, come l’incertezza sulle prospettive economiche o il livello drammatico della disoccupazione giovanile, e il quadro roseo tratteggiato dal premier.

Sullo sfondo la ricattatoria insistenza, condivisa da molti media internazionali, sui catastrofici effetti di un eventuale successo del no. Si parlava di borse in picchiata, tassi del debito pubblico in aumento con conseguente impennata dello spread rispetto ai titoli tedeschi, alcune banche a rischio fallimento, la possibile uscita dell’Italia dall’euro e dalla stessa Unione Europea. Invece i mercati, come già era accaduto per Brexit e per la vittoria di Donald Trump, almeno all’inizio hanno reagito senza scomporsi. Due fra le principali agenzie di rating, Fitch e Standard & Poors, fanno sapere che l’esito del referendum non comporta di per sé una valutazione al ribasso del sistema Italia. Dopo i primi titoli sensazionali, la stessa stampa internazionale ha cominciato a considerare con freddezza la nuova situazione.

Il voto lascia ovviamente inalterati i rapporti di forza parlamentari. Il Pd dispone della netta maggioranza che gli fu garantita dalla vecchia legge elettorale, la cui dichiarata incostituzionalità non pregiudica la legittimità del parlamento comunque eletto. Tocca dunque al Pd, come ha riconosciuto il vertice di Forza Italia, assicurare gli adempimenti del caso e formulare proposte politiche. Ma nel Pd Renzi, che resta segretario, deve vedersela con un’opposizione interna rafforzata dal voto referendario, che non gli perdona l’incredibile parabola impressa al partito. All’indomani dell’insediamento, quasi tre anni or sono, poté festeggiare una travolgente vittoria alle elezioni del parlamento europeo, con il Pd al 41 per cento. Il giovane presidente aveva il vento in poppa, una sconfinata ambizione, una solida maggioranza: ma ha peccato di eccessiva fiducia in se stesso.

 Del resto questo è un po’ dappertutto tempo di resa dei conti. Circola in rete una foto di gruppo assai significativa, scattata lo scorso aprile al vertice di Hannover. Vi si vedono cinque leader internazionali: Cameron, Obama, Merkel, Hollande e Renzi. Di costoro, soltanto la Cancelliera è tuttora in sella e si prepara al giudizio degli elettori per un eventuale quarto mandato. Cameron ha perduto la scommessa della Brexit, Obama termina il secondo quadriennio alla Casa Bianca senza poter rimettere la presidenza in mani amiche, Hollande travolto dai sondaggi ha dovuto rinunciare alla ricandidatura. E ora Renzi seppellito da una valanga di no alla sua proposta riformatrice. Avanzano nelle democrazie occidentali le forze anti-sistema. In controtendenza l’Austria, dove nel ballottaggio per la presidenza il candidato ecologista Alexander Van der Bellen ha sbarrato il passo all’ultranazionalista Norbert Hofer. Si temeva anche a Vienna il trionfo del populismo anti-Bruxelles, così non è andata. Una boccata d’ossigeno per l’Unione Europea che ora attende col fiato sospeso il voto del 15 marzo in Olanda, dove i sondaggi danno favorito il demagogo Geert Wilders, e quello francese in programma il 23 aprile e il 7 maggio, quando le legioni lepeniste muoveranno all’assalto dell’Eliseo.