I morti viventi dell’isola di Lesbo

Grecia – Emergenza umanitaria nel campo profughi, ponte tra la vicina Turchia e l’Europa
/ 08.10.2018
di Luisa Betti Dakli

«Welcome to prison» (Benvenuti in prigione) è la scritta sul muro che circonda Moria, il campo profughi sull’isola greca di Lesbo, dove oltre 9.000 persone vivono in uno spazio per 3.100, e dove bambini di 10 anni tentano il suicidio. «C’è stato un aumento di minori affetti da intensi attacchi di panico, pensieri suicida e tentativi di togliersi la vita», racconta Alessandro Barberio, psichiatra di Medici senza frontiere (MSF) che opera nella clinica di Mitilene: il medico, specializzato nella gestione di emergenze, ha dichiarato che Lesbo gli ricorda un «manicomio d’altri tempi». Qui Mahmoud, a 12 anni, ha tentato due volte di impiccarsi e i bambini non accompagnati, che per la legge ellenica possono essere trattenuti per 25 giorni in attesa di una collocazione, compiono atti di autolesionismo, come tagli sulle braccia o sul corpo, per la disperazione dopo essere stati segregati per mesi nell’inferno di Moria.

«Il campo è pericoloso specialmente per i bambini. Ogni giorno trattiamo condizioni relative all’igiene come vomito, diarrea, infezioni della pelle e altre malattie infettive, per poi rimandare i piccoli nelle stesse condizioni di vita ad alto rischio: un mix – dice Declan Barry, coordinatore medico di MSF – che rappresenta una tempesta perfetta per la salute e il benessere dei bambini». 

Il centro d’accoglienza di Moria è nato nel 2015 ed è la prima porta verso l’Europa per chi scappa dalla guerra, un transito dove i rifugiati dovrebbero trascorre pochi giorni ma che, con l’accordo tra Unione Europea e Turchia del 2016, si è trasformato in una «prigione». Un hotspot dove vengono valutate le domande dei richiedenti asilo che saranno espulsi nel caso non abbiano i requisiti per essere trasferiti sulla terraferma: rispediti in Turchia (dove rischiano di finire in prigione) o nel paese di provenienza se viene valutato come non pericoloso. Ma i tempi per avere una risposta alla richiesta, che il più delle volte viene rifiutata, sono lunghissimi con attese di mesi, a volte anni, e anche i «soggetti vulnerabili» (disabili, minori non accompagnati, donne incinte, vittime di stupro o tortura, persone affette da gravi disturbi, ecc.), non sempre sono riconosciuti e trasferiti in tempi rapidi. Una fermata forzata in condizioni disumane che crea un sovraffollamento, ora piombato nel caos, in nome della politica di contenimento dell’UE e in beffa alla Convenzione di Ginevra che dovrebbe proteggere dal rimpatrio chi ha motivo di temere di essere perseguitato. 

«La maggior parte arriva con sintomi tra cui allucinazioni, agitazione, confusione, disorientamento, forti spinte suicide – aggiunge Barberio – in quanto molti sono vittime di tortura o violenza sessuale, e soffrono di disturbi da stress post traumatico per cui quando arrivano qui, dove vengono bloccati anche per molto tempo, i sintomi esplodono», creando una percentuale elevata di persone affette da malattie mentali. 

L’hotspot, che era una base militare, è su una collina con container pensati per 5 o 6 persone, che oggi ospitano fino a 25 persone. Protetta da un muro, filo spinato e grandi cancelli chiusi con lucchetti, Moria è controllata da poliziotti che registrano entrate e uscite, come in un carcere. Al suo interno c’è un bagno ogni 72 persone e una doccia ogni 84, l’acqua è solo fredda e i rubinetti sono attivi per 30-40 minuti 3 volte al giorno con migliaia di persone che si accalcano per raccogliere la poca acqua in bottiglie. Le docce e i servizi igienici emanano un odore così forte che è impossibile usarli e le docce sono piene di feci umane: per questo spesso i bambini vengono lavati nudi all’esterno e rimangono intirizziti per il freddo, mentre le donne evitano di andarci per le numerose aggressioni fisiche, sessuale e verbali che subiscono da uomini che girano fuori dalle loro latrine. 

Il campo però non finisce qui perché a causa del sovraffollamento molti si accampano all’esterno delle mura. Olive Grove è una tendopoli senza elettricità, senza acqua né servizi né angoli cottura, dove in inverno, quando piove, il freddo e il fango invadono le tende. Eppure stare qui per Yasser, che vive con la famiglia e la moglie incinta, è più dignitoso: «Ogni notte nel campo ci sono risse – dice Yasser a HRW – e per le donne e i bambini è molto pericoloso vivere lì». Le donne e le ragazze intrappolate a Moria sono spesso costrette a dividere le tende e i container con uomini mettendo a rischio la loro incolumità, ed è stato l’Alto commissario delle Nazioni Unite per i rifugiati (UNHCR) a esprimere forti preoccupazioni dichiarando che nelle isole greche le donne e i bambini rifugiati affrontano un rischio elevato di aggressioni e violenza sessuale nelle strutture di accoglienza. Come Cynthia che a 18 anni è stata aggredita più volte da un richiedente asilo perché non indossava abiti islamici: «Una volta mi ha spinto contro un albero per la gola – racconta – ma io non l’ho segnalato perché ho paura che se lo denuncio e viene rimproverato, i suoi amici mi faranno del male».

Un enorme centro di detenzione, quello delle isole greche davanti alla Turchia (Lesbo, Chios, Samos, Leros e Kos), dove 20mila persone fuggite da Siria, Afghanistan, Iraq, Sudan e Congo si ammassano in situazioni disumane aspettando di raggiungere l’Europa, spesso invano. La famiglia Al Salih, scappata dalla Siria di notte sotto i bombardamenti e l’ISIS, è arrivata a piedi in Turchia riuscendo a superare il confine dopo tre mesi e 20 tentativi, e ad attraversare il mare dopo un mese e 10 respingimenti, per poi arrivare a Moria con il rischio di essere rispediti indietro. «È stato molto brutto arrivare qui – ha detto il capo famiglia – sarebbe stato meglio morire in Siria».

Intanto, in questi giorni, Amnesty International ha presentato un rapporto sulla popolazione femminile dei campi profughi greci, dal titolo «Voglio decidere del mio futuro: dalla Grecia, le voci delle donne che hanno perso le radici». Un dossier che raccoglie voci di donne che dopo la chiusura delle frontiere nel 2016, sono state prima vittime dei trafficanti, da cui hanno subito ogni sorta di violenza senza poter denunciare in quanto «illegali», e poi, una volta approdate sulle coste europee della Grecia, si sono ritrovate nelle prigioni a cielo aperto dell’Egeo. Una situazione su cui Amnesty International ha chiesto l’intervento immediato della Ue e del governo greco per assistere degnamente i rifugiati, che sono al 60% donne e bambini, e creare una accoglienza sicura, aggiungendo la sua voce a quella di Medici senza frontiere che da tre anni chiede di mettere fine all’accordo euroturco, evacuando «immediatamente le persone più vulnerabili in sistemazioni sicure in altri Paesi europei».

 

Nel frattempo lunedì 8 ottobre scorso la Corte suprema greca ha ordinato un’indagine preliminare, affidata alla procura finanziaria, su possibili abusi nella gestione dei fondi europei versati ad Atene per affrontare la crisi migratoria del 2015-2016: un’inchiesta nata dopo le polemiche su alcuni giornali di destra in cui il governo di Alexis Tsipras è accusato di appropriazioni indebita dei fondi grazie all’intervista al capo del servizio di accoglienza dei rifugiati, Andreas Iliopoulos, che ha parlato sui giornali di «illegalità».