Morti, feriti e arresti. La repressione dei militari in Myanmar si è intensificata nelle ultime due settimane. Uomini della polizia e dell’esercito hanno fatto fuoco ad altezza uomo in diverse città del Paese, dove centinaia di migliaia di persone stanno protestando contro il golpe del primo febbraio. «Questa situazione era prevedibile e credo che la violenza aumenterà nel breve periodo», spiega Zachary Abuza, docente al National war college di Washington ed esperto di Sud-Est asiatico. «Parliamo di un esercito che è in guerra contro il suo popolo dal 1948 e non ha mai avuto nessuna esitazione nel colpire i suoi stessi cittadini. Secondo il punto di vista dei militari, se non si reprime subito il movimento di resistenza civile, questo verrà legittimato e incoraggiato».
Che la situazione si potesse infiammare velocemente c’era da aspettarselo. Tutte le proteste del passato, compresa quella del 1988 e la «Rivoluzione dello Zafferano» del 2007 portata avanti dai monaci buddisti, sono finite in un bagno di sangue. I segnali, anche all’inizio di queste manifestazioni, portavano sulla stessa strada. Le forze armate, dopo aver schierato gli uomini della polizia armati fino ai denti, hanno messo in campo anche i militari, compresi i cecchini e gli uomini della 33. divisione di fanteria leggera, un gruppo d’élite già utilizzato nelle atrocità commesse contro la minoranza musulmana Rohingya nel 2017 e nei conflitti etnici che da oltre settant’anni, insanguinano il Paese. Tom Andrews, il relatore speciale delle Nazioni unite, qualche giorno fa aveva profeticamente descritto il dispiegamento di questo reparto come «una pericolosa escalation da parte della giunta al potere in quella che sembra essere una guerra contro il proprio popolo». Detto, fatto.
Le violenze ordinate da Min Aung Hlaing, il numero uno del Tatmadaw – il potente esercito del Myanmar – hanno scatenato l’indignazione di gran parte dei Governi mondiali, che oltre a chiedere di «interrompere immediatamente l’uso della forza contro i civili» e «rispettare i diritti alla libertà di espressione», hanno annunciato qualche timida sanzione ai leader militari. Per il professore Abuza, in realtà, poco è stato fatto dai Paesi occidentali per contrapporsi a questa tragica situazione. «Le sanzioni sono state limitate e molto mirate. La ricchezza dei generali è protetta e in gran parte non influenzata, poiché è legata all’estrazione delle risorse naturali e all’ottenimento della loro parte del commercio di metanfetamine». Non bisogna dimenticare, infatti, che il Myanmar è il più grande produttore di droghe sintetiche al mondo e il secondo di eroina dopo l’Afghanistan. Un business illegale che vale oltre quaranta miliardi di dollari nel Paese e che, secondo numerose organizzazioni, sarebbe in gran parte sotto il controllo dei potenti capi militari del Tatmadaw.
Eppure, mentre i generali continuano ad arricchirsi, la maggioranza dei birmani è costretta alla miseria. Quasi un terzo di loro vive al di sotto della soglia di povertà, soprattutto nelle zone etniche, dove risiede più del 70 per cento della popolazione. «L’esercito in decenni di dittatura ha trasformato il Myanmar dal Paese più ricco del Sud-Est asiatico a uno dei più poveri del globo», continua il docente del National War College. «I militari non si sono mai preoccupati dello sviluppo economico della Nazione, come farebbero dei normali politici, hanno pensato solo al loro portafogli».
I Paesi vicini dovrebbero fare di più, ma la situazione non è semplice. «Singapore, che ha una reale influenza nella regione – prosegue l’esperto – sta scegliendo di non esercitarla al massimo, nel perfetto modus operandi dominante nell’Asean», l’Associazione delle Nazioni del Sud-Est asiatico. «L’Indonesia sta cercando di guidare un’uscita diplomatica dall’impasse, ma non ha l’autorità per farlo. La Cina, fedele alleata del Myanmar anche negli anni dell’embargo, sta spostando la sua posizione per accomodare la giunta militare, fiduciosa che gli enormi interessi economici che legano Pechino a Naypyidaw saranno protetti».
Intanto, una settimana fa Aung San Suu Kyi – dopo un mese che non si avevano più sue notizie – è riapparsa in videoconferenza durante l’udienza al suo processo. Il difensore Khin Maung Zaw, che ancora non è riuscito a parlarci, ha detto che l’ha vista «in buona salute». Alla leader agli arresti sono stati contestati altri due reati. Se condannata, rischia fino a 9 anni di carcere e l’impossibilità di candidarsi a qualsiasi elezione futura.
«I militari stanno facendo di tutto per cercare di prendere tempo», spiega Abuza. «Non bisogna dimenticarci che Suu Kyi ha 75 anni, l’età media dell’alta dirigenza della Lega nazionale per la democrazia è di 74 anni e che il partito ha fatto un lavoro terribile nel coltivare la nuova generazione dei leader». Per l’analista l’esercito userà questo tempo per organizzarsi. «Non possiamo dire quando, ma credo che il Tatmadaw ripristinerà davvero una sorta di democrazia, ovviamente molto limitata. Lo farà dopo aver indebolito i partiti politici esistenti e aver usato la forza per fermare il dissenso popolare».
Scendono in campo anche gli sciamani
Nonostante il Myanmar sia un Paese a maggioranza buddista, la superstizione legata ad antiche leggende animiste fa parte della vita quotidiana della popolazione. Così, anche in un momento drammatico come quello che sta vivendo la Nazione del Sud Est asiatico, non poteva mancare l’invocazione agli spiriti. Nelle strade delle maggiori città, insieme ai manifestanti che da un mese si stanno battendo contro il colpo di Stato, sono scesi in campo anche gli sciamani Natkataw, che invocando i Nat, chiedono la liberazione di Aung San Suu Kyi e il rispetto delle elezioni del novembre scorso.
Secondo la tradizione i Nat sarebbero persone realmente vissute e decedute in circostanze terribili. Dopo la morte, trasformati in spiriti guida, vivrebbero tra la natura selvaggia. Il luogo simbolo del culto di questi fantasmi è la cima del Monte Popa, una montagna di origine vulcanica che sorge al centro del Paese. Questi spiriti si manifesterebbero alla popolazione grazie alla mediazione degli sciamani, che attraverso particolari rituali, dove vengono bevute bevande alcoliche a base di riso, entrerebbero in trance e riuscirebbero a comunicare con loro.
Nonostante in Occidente pratiche arcaiche di questo tipo possono sembrare inconcepibili, il ruolo dei Natkataw nella società del Myanmar è molto importante. Sin dall’era coloniale britannica e nei decenni di dittatura militare successivi, questi stregoni hanno sempre utilizzato i loro poteri magici anche per cercare di combattere gli oppressori. In passato, proprio per questi motivi, i vertici del Tatmadaw li hanno repressi. Ma sebbene la leadership militare abbia sempre mostrato pubblicamente disappunto verso questo tipo di rituali, anch’essa ha più volte chiesto aiuto agli sciamani, prestando molta attenzione ai consigli che le venivano indicati. Ad esempio Than Shwe, padre-padrone del Myanmar dal 1992 al 2011 e tuttora «padrino» delle forze armate, era un cliente abituale di un famoso indovino e sembrerebbe che anche l’attuale capitale Naypyidaw, la «Sede dei re», sia stata costruita dal nulla dopo il consiglio del suo Natkataw, proprio a causa della superstizione.
I militari, la forza e la droga
In Myanmar le violenze contro i manifestanti si intensificano. L’Occidente fa poco e la Cina sostiene la giunta al potere che si arricchisce con la produzione di stupefacenti
di Fabio Polese