«Sarà per deformazione professionale, perché sono stata un magistrato della pubblica accusa per tutta la vita, ma dopo aver provato sgomento e orrore di fronte a questa terribile guerra di Vladimir Putin contro l’Ucraina, la prima cosa che ho pensato, davanti all’osceno spettacolo dei morti gettati nelle fosse comuni, è stata: speriamo che abbiano almeno identificato le vittime che stanno seppellendo. (...) Perché sapere se quei corpi sono di civili oppure di militari, e in quale circostanza quegli uomini sono stati uccisi, potrebbe essere di grande importanza per quelle che – me lo auguro – saranno le future inchieste del Tribunale penale internazionale dell’Aia». Così esordisce Carla Del Ponte nel saggio Per la giustizia (Add editore), disponibile nelle edicole da pochi giorni. Ma per mettere Putin sul banco degli imputati – sottolinea l’ex procuratrice capo dei Tribunali per la ex Jugoslavia e per il Ruanda – «saranno necessarie minuziose indagini per dimostrare che è responsabile di reati gravissimi, crimini di guerra, crimini contro l’umanità, nonché l’utilizzo massiccio di armi proibite». E la sua possibile condanna, come la condanna di tutti i responsabili delle atrocità che si sono consumate e continuano a consumarsi nel mondo, è fondamentale sia per le vittime e i loro parenti, sia per interrompere «la catena di vendette che le guerre portano con sé, trascinandosi negli anni, chiamando sangue da sangue, violenza da violenza».
La riflessione di Del Ponte parte come detto dal caso ucraino per poi allargarsi ad altri orizzonti. Non solo in Ucraina c’è la guerra. Violenze inaudite e immani sofferenze coinvolgono, anche adesso, popolazioni di diversi paesi mentre il nostro livello di attenzione è basso e ondivago. Pensiamo alla Siria dove, da oltre un decennio, «i crimini di guerra e quelli contro l’umanità fanno parte della vita quotidiana» ma anche allo Yemen, al Mozambico, al Tigrè, al Niger, al Mali, all’Afghanistan ecc. E i responsabili delle barbarie rimangono il più delle volte impuniti. Come mai?
Il diritto internazionale – di cui nel libro l’ex magistrata spiega genesi e tappe essenziali – esiste sin dalle due guerre mondiali, ma non viene applicato perché manca la volontà politica. «La situazione politica attuale ha messo in secondo piano i diritti umani e il loro riconoscimento. Ciò è dovuto soprattutto alle opposte esigenze dei singoli Stati, dunque ai loro interessi nazionali, oltre che all’incapacità delle Nazioni unite, come organizzazione mondiale, di contribuire a far rispettare i diritti umani». Già, perché l’incisività dell’Onu – che del Ponte definisce «la vecchia signora» – dipende dalle decisioni di un Consiglio di sicurezza controllato da 5 potenti membri permanenti (Cina, Russia, Usa, Francia e Gran Bretagna) i quali dispongono del diritto di veto. L’ex magistrata afferma che è condizionata dalla politica anche la Corte penale internazionale o Cpi – fondata sullo Statuto di Roma del 1998 e attiva dal 2002 – che si occupa di perseguire coloro che si macchiano dei crimini più gravi (crimini di guerra o contro l’umanità, genocidio e guerre offensive). «O gli stati devono aver sottoscritto e ratificato lo Statuto di Roma, infatti, oppure il Consiglio di sicurezza dell’Onu deve aver assegnato la giurisdizione alla Corte. E si ritorna sopra. Insomma, l’applicazione del diritto internazionale viene accettata finché non tocca gli interessi nazionali». Mentre le tragedie continuano. Del Ponte ricorda che solo nel 2019 ci sono state 158 violente crisi, di cui 27 conflitti armati e guerre (che hanno segnato soprattutto il continente africano).
Per la giustizia è un accorato appello alla comunità internazionale, affinché restituisca «la debita importanza alla tutela dei diritti inalienabili di cui tutti dovrebbero godere». Come? Potenziando la Cpi e rendendo l’Onu il più possibile indipendente dalla volontà politica dei singoli Paesi attraverso delle riforme. Nel saggio l’ex magistrata ripercorre con dovizia di particolari le sue esperienze, a partire da quella come procuratrice capo del Tribunale per la ex Jugoslavia (dal 1999). «Per la prima volta dopo Norimberga e Tokyo (...) abbiamo portato davanti a un tribunale le alte cariche politiche e militari responsabili di genocidio, crimini di guerra e contro l’umanità». Compreso Slobodan Milošević, l’ex presidente della Repubblica federale di Jugoslavia (che le ricorda Putin). Poi si passa al caso del Ruanda, dove negli anni Novanta si perpetrarono terribili atrocità da entrambe le parti, hutu e tutsi: «La triste verità è che, in guerra, nessuna fazione è innocente». Infine il conflitto in Siria dove, dal 2011, ha perso la vita più di mezzo milione di persone. Del Ponte ha fatto parte della Commissione d’inchiesta dell’Onu ad hoc e in quell’occasione «sono stata costretta a sperimentare come un procedimento giudiziario internazionale venisse soffocato sul nascere, prima ancora di cominciare. Non soltanto dai veti di Russia e Cina, ma anche dall’atteggiamento passivo degli Stati Uniti».
E proprio all’atteggiamento disinteressato, quando non ostile, degli Usa nei confronti della giustizia internazionale è dedicato uno degli ultimi capitoli del libro. Possiamo soltanto sperare che con il presidente Biden le cose cambino, osserva Del Ponte. Intanto «non dovremmo perdere di vista il vero obiettivo: che le persone in tutto il mondo possano vivere in pace e stabilità. E questo succede solo se le vittime di crimini di guerra, crimini contro l’umanità, genocidio e crimini di aggressione ottengono giustizia».