«L’abilità degli utenti di Internet di diffondere video del massacro della Nuova Zelanda ha segnato il trionfo del genio umano – per quanto orripilante – sui sistemi computerizzati che erano stati progettati per bloccare immagini di violenza e di odio». Inizia così, con questo bollettino di vittoria per il «genio umano-genio del male», una lunga analisi scritta da quattro reporter del «Washington Post» e pubblicata in prima pagina, pochi giorni dopo la strage di Christchurch. L’inchiesta ha un titolo raggelante: Il modello di business di Internet ha aiutato il massacro a diventare virale. Nello stesso reportage si legge anche quanto segue: «Coloro che festeggiavano gli attacchi alle moschee dove sono morte 50 persone, sono riusciti a pubblicare e ripubblicare i video del massacro su Facebook, YouTube e Twitter malgrado esistano su quei social sistemi d’intelligenza artificiale per bloccarli.
Le immagini sono rimaste visibili per molte ore, in certi casi per molti giorni. Questo fallimento ha messo in luce la difficoltà della Silicon Valley nel ripulire delle piattaforme che sono altamente profittevoli e tuttavia manipolabili dall’esterno, dopo anni in cui venivano promessi miglioramenti. La diffusione incontrollata di quei video orribili – un trionfo di propaganda per gli ideologhi dell’odio razziale – costringe a chiedersi se i social media possono essere resi più sicuri senza intaccarne il business. Più sintetico, ma altrettanto severo, è l’ex dirigente di Google Tristan Harris: «Abbiamo creato un Frankenstein digitale incontrollabile».
La sinistra americana si sta risvegliando – forse troppo tardi – dopo un paio di decenni in cui era stata ipnotizzata da una favola: quella sulla Silicon Valley «progressista». Favola bugiarda, ma che ha avuto una presa enorme. Ora arriva una presa di coscienza, lo dimostra la proposta di Elizabeth Warren, la senatrice del Massachusettss candidata alla nomination democratica, di «smembrare» gli imperi di Amazon, Facebook, Google, una riscoperta della tradizione antitrust che era stata abbandonata quando erano al governo Clinton e Obama. Un paradosso fra tanti, è che quell’articolo giustamente spietato da cui ho estratto la citazione iniziale, è uscito sul giornale posseduto da uno dei Padroni della Rete, il più ricco di tutti: Jeff Bezos, fondatore e chief executive di Amazon. Proprio Amazon è una delle ragioni per cui la sinistra americana sta finalmente aprendo gli occhi.
«Le regole di questa economia sono truccate. Il giorno stesso in cui Amazon annunciava la sua decisione di non costruire qui a New York il suo secondo quartier generale, abbiamo appreso che questa società non pagherà tasse federali sui miliardi di profitti che ha incassato l’anno scorso. È una cosa che fa infuriare, nel periodo in cui milioni di contribuenti del ceto medio e della classe operaia compilano la dichiarazione dei redditi e scoprono che pagheranno di più». Così il sindaco di New York, Bill de Blasio, commenta il gran rifiuto dell’azienda, che ha voltato le spalle alla sua città. De Blasio si esibisce in un delicato equilibrismo. Perché lui stesso è stato spiazzato due volte: prima da una rivolta in seno al partito democratico contro il ricatto fiscale di Amazon che aveva estorto 3 miliardi di dollari di sgravi fiscali; poi dal padre-padrone del colosso digitale, Bezos, che se n’è andato sbattendo la porta.
De Blasio si colloca nell’ala sinistra del partito democratico e tuttavia lui stesso non ha visto crescere l’indignazione della sua base, che invece è stata cavalcata dalla neodeputata democratica Alexandria Ocasio-Cortez. Il sindaco si è trovato in una posizione inedita e scomoda: a fianco del suo ex-nemico di partito, il governatore democratico Andrew Cuomo (un moderato), con cui aveva negoziato l’accordo e promesso il generoso sussidio fiscale ad Amazon; contestato dalla nuova sinistra radicale che si ribella contro i regali dei contribuenti alle multinazionali.
De Blasio se la cava scaricando tutta la colpa su Bezos, per aver rifiutato il dialogo con una fascia della popolazione locale, «minoritaria» secondo il sindaco, ma meritevole di attenzione. «Io avevo dato la mia consulenza – dice il primo cittadino – a un alto dirigente di Amazon su come prevalere su alcuni dei loro critici: incontrate i sindacati, cominciate subito ad assumere chi vive nelle case popolari del quartiere, investite in infrastrutture e altri bisogni sociali della comunità locale, fate vedere che siete sensibili al tema della giustizia e delle opportunità per i lavoratori di Long Island City. Se non vi piace una minoranza rumorosa che contesta le intenzioni o l’onestà della vostra azienda, dimostrate con i fatti che hanno torto. Al contrario, Amazon nei fatti gli ha dato ragione».
Così de Blasio ricostruisce l’annuncio a sorpresa del «gran rifiuto», quando agli attacchi politici la regina del commercio online ha reagito dicendo: se non mi volete non mi avrete, peggio per voi. De Blasio cerca di spiegare come si possa essere di sinistra e regalare sgravi fiscali esorbitanti alle multinazionali. «Da una vita io sono un progressista che vede il problema delle diseguaglianze crescenti, nei redditi e nella ricchezza. Ma l’accordo che avevamo raggiunto con Amazon avrebbe creato almeno 25.000 posti di lavoro… e 27 miliardi di dollari di nuove entrate fiscali – cioè nove volte più di quanto concedevamo come sgravi».
L’argomentazione è discutibile. Anzitutto, gli sgravi erano certi e immediati, mentre le proiezioni sulle future entrate fiscali sono aleatorie; non è chiaro inoltre se quelle tasse future le avrebbe pagate Amazon oppure se sono una stima ottimistica sul gettito fiscale complessivo da tutto l’indotto, cioè le attività economiche create dal gigante. Poi vale l’obiezione che lo stesso de Blasio muove sulle zero tasse federali: perché una delle aziende più capitalizzate del mondo deve estorcere esenzioni che vengono negate al ceto medio? La creazione del secondo quartier generale a New York era un’operazione a scopo di lucro, foriera di nuovi profitti, non beneficenza: perché aggiungere nuove distorsioni di mercato con il favoritismo fiscale, negato a qualsiasi piccola impresa? Questa vicenda non ha finito di accendere gli animi: la novità non è la prepotenza di Bezos (esistono precedenti anche nella prima sede, Seattle), ma è il nuovo dibattito che divampa in seno alla sinistra, per definire strategia e valori in vista della campagna presidenziale del 2020.
È il momento del contraccolpo, delle recriminazioni, delle autocritiche. «New York ha perso 25.000 posti di lavoro», è il titolo che sintetizza la sindrome post-traumatica. Il «New York Times» in un editoriale molto severo si allinea con la saggezza convenzionale, o almeno quella che per decenni è apparsa tale. La tesi prevalente è questa: la sinistra radicale che insegue utopie socialiste, ha lanciato una campagna auto-lesionista. New York ha perso un’occasione per allargare la sua base occupazionale, in nome di astratti ideali di giustizia fiscale. In teoria è un magnifico esempio di sinistra «alla Maduro». Un regalo per la propaganda di Trump nella prossima campagna elettorale: votate democratico e avrete il socialismo, l’assalto a chi crea ricchezza, cioè la redistribuzione della miseria. Senonché è difficile che Trump usi Amazon come modello positivo: odia Bezos, editore del giornale d’opposizione «Washington Post».
Inoltre lo stesso Trump, se un giorno conosceremo finalmente la verità sulle tasse che (non) ha pagato, sarà un magnifico esempio della logica perversa dei sussidi fiscali. Qualsiasi palazzinaro qui a New York è uno specialista nel raccogliere gli stessi sussidi fiscali che Amazon stava per incassare. Pragmatismo, saggezza convenzionale, hanno creato un sistema per cui se tu sei ricco vai dal sindaco e dal governatore e gli dici: mi vuoi? Fammi uno sconto sulle tasse, o vado a investire nello Stato a fianco. La concorrenza fiscale tra Stati non ha prodotto nulla di virtuoso, da decenni sta alterando la natura del capitalismo, ci spinge verso una deriva oligarchica, verso una società di privilegi feudali, contro la quale poi scoppiano le rivolte populiste (di destra, sinistra, centro).
Se la sinistra americana vuole voltare pagina, un aiuto forse lo avrà dalla decisione finalmente annunciata da Hillary Clinton: «Non vado da nessuna parte. Non mi candido». La rinuncia a correre per la Casa Bianca nel 2020 è ragionevole – e benefica per il partito democratico. Con l’uscita di scena di colei che poteva diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, si chiude una stagione lunga della politica americana: il «clintonismo». Nel bene e nel male – col passar del tempo soprattutto nel male – i coniugi Bill e Hillary erano diventati un’icona sovraccarica di significati. Bill e Hillary, sempre affiatati almeno come pensiero politico, rappresentarono una ventata di rinnovamento: la Terza Via, con Tony Blair e Gerhard Schroeder come sponde europee. Un riformismo che abbracciava l’economia di mercato, tagliava i ponti col vecchio statalismo «tassa-e-spendi».
Riconosceva l’importanza della sicurezza, della tolleranza zero contro il crimine; e anche sull’immigrazione sposava il controllo dei flussi d’ingresso, tant’è che il primo Muro al confine San Diego-Tijuana lo fece costruire Bill. Ma negli stessi anni Novanta il clintonismo portò ai trattati di libero scambio come il Nafta, all’ingresso della Cina nel Wto: antefatti di quella delocalizzazione che impoverì la classe operaia americana. Ci fu anche la deregulation finanziaria che seminò i germi della crisi del 2008. I conti col clintonismo non sono stati fatti fino in fondo. Il bilancio coinvolge inevitabilmente Barack Obama e quindi Joe Biden, che si avvia a candidarsi.