I custodi del trumpismo

Radiografia di un voto - Il mondo che The Donald sta costruendo per la sua transizione alla Casa Bianca è composto di tre cerchi: la famiglia, il partito repubblicano e i finanziatori, fra i quali spiccano Robert e Rebekah Mercer
/ 21.11.2016
di Paola Peduzzi

Il mondo che Donald Trump sta costruendo per la sua transizione verso la Casa Bianca è composto da tre cerchi concentrici: quello più vicino a lui è la famiglia, naturalmente, sempre presente, indefessa, biondissima e sorridente. Anche nei momenti più cupi – la convention di Cleveland nello scorso luglio, per esempio – Trump ha sfoggiato e valorizzato il ruolo dei suoi familiari, che oggi continuano a essere decisivi, non più soltanto come forze di protezione, ma come attori del nuovo corso (con le ormai consuete sfumature ridicolo-inquietanti: posso condividere i segreti di Stato con i miei figli?, ha chiesto Trump). 

Nel secondo cerchio ci sono i membri del Partito repubblicano e quei politici-satelliti che provano a costruire il ponte che necessariamente deve unire il candidato-outsider e il prossimo presidente repubblicano: la pacificazione dopo questi mesi di liti e distacchi furibondi è una delle priorità, più per i repubblicani che per Trump, va detto. 

Nel terzo ci sono i finanziatori, imprenditori e magnati che hanno sostenuto l’avanzata di Trump: tra questi una delle famiglie più influenti e più riservata (in contrasto con lo stile Trump) è quella di Robert Mercer, considerato uno dei più brillanti manager di hedge fund di Wall Street, con un reddito stimato da «Forbes» di 150 milioni di dollari soltanto per il 2015. La seconda figlia Rebekah, che è la più attiva in politica delle tre «ragazze» Mercer, è stata nominata nel team di transizione di Trump.

Bob Mercer è un uomo molto ricco e molto schivo, che si concede poco agli intervistatori: matematico con un Phd in computer science, Mercer ha la passione del poker (è fortissimo) e dei numeri in generale. Ha cominciato la sua carriera a Ibm, dove ha sviluppato programmi per il riconoscimento delle lingue e la trasformazione delle parole in testo, e a metà degli anni Novanta è entrato nell’hedge fund Renaissance Technologies fino a diventarne il capo. Vive assieme alla moglie Diana nel North Shore di Long Island dove ha installato un modello ferroviario per trenini del valore di 2,7 milioni di dollari (lo si sa perché Mercer ha denunciato il venditore che gli ha fatto pagare troppo l’installazione: ci sono le testimonianze in tribunale).

Nel 2015 Mercer è stato definito dal «Washington Post» «uno dei più influenti miliardari impegnati in politica», e questo titolo coronava già allora anni di finanziamenti in campo repubblicano: la fondazione di famiglia, che è guidata dalla figlia Rebekah, ha sostenuto campagne locali a New York e iniziative libertarie in giro per l’America, mentre Mercer ha contribuito alle campagne elettorali americane degli ultimi quindici anni. Dal 2006 a oggi, ha speso 34,9 milioni per i suoi candidati – passando brevemente per una iniziativa comune assieme ai più celebri fratelli Koch, celebri finanziatori del Partito repubblicano, salvo poi mettersi in proprio con la fondazione di famiglia – e nel frattempo ha investito anche nei think tank e nelle istituzioni legate al mondo conservatore e libertario americano. 

Primo donor della campagna 2016 secondo le classifiche della commissione federale, Mercer non è un trumpiano della prima ora. Il suo favorito inizialmente era Ted Cruz, il senatore del Texas che durante le primarie repubblicane per un breve momento apparve come l’alternativa più credibile a Donald Trump. Mercer ha donato 13 milioni di dollari a un SuperPac legato a Cruz, mettendosi contro buona parte dei finanziatori d’establishment che spingevano verso le candidature moderate di Jeb Bush e di Marco Rubio. Con un’attenzione considerata inusuale, Mercer è intervenuto spesso nelle decisioni del SuperPac, badando soprattutto alle spese e mettendo come «controllore» un’amica e collaboratrice, Kellyanne Conway, che ad agosto è diventata la manager della campagna elettorale di Trump, ormai nominato come candidato repubblicano per la Casa Bianca. Quando Ted Cruz, sconfitto, si rifiutò di dare un endorsement diretto a Trump durante la convention di Clevaland, Mercer dichiarò di essere «profondamente deluso» dalla decisione di Cruz. Intanto però si mise al lavoro: riorganizzò il superPac, rinominadolo Make America Number One, lo diede in gestione alla figlia Rebekah e gli diede una specializzazione: la produzione di spot anti Hillary Clinton.

Bob Mercer è anche il principale finanziatore di Breitbart, il sito che ha fatto da cassa di risonanza del trumpismo: Steve Bannon, che dal 2012 guida Breitbart, è stato coinvolto nella campagna elettorale di Trump sempre ad agosto – come la Conway – e sempre in seguito alle pressioni della famiglia Mercer, che aveva individuato (perfettamente, ora sappiamo) in questi due agitatori le possibilità di rimonta di Trump. Bannon è il più controverso dei collaboratori del prossimo presidente: è stato nominato capo della strategia della Casa Bianca e da giorni non si fa che parlare di lui, del suo pensiero e delle ripercussioni che la sua presenza avrà sulla presidenza di Trump. Bannon è amico della famiglia Mercer, in particolare di Rebekah, che è in questo momento il volto più visibile dei Mercer: i due insieme hanno messo in piedi un’iniziativa a New York, «Reclaim New York», volta alla trasparenza dell’amministrazione locale della città. L’obiettivo è coinvolgere i cittadini per individuare e denunciare sprechi, che è una delle classiche iniziative «bottom up» che caratterizzano la visione del potere del trumpismo. 

Il gioiello della famiglia Mercer al momento però è la Cambridge Analytica, l’azienda di «management elettorale» che ha contribuito grandemente alla definizione del fenomeno Trump. Considerata la passione per i numeri e per le previsioni del pokerista Bob Mercer, la Cambridge rappresenta il successo più grande dell’intervento dei Mercer nella costruzione della candidatura di Trump: come tutto, nel mondo dei Mercer, quest’azienda di analisi dei dati è stata prima utilizzata per Ted Cruz, per delineare il suo potenziale, ma una volta che il candidato è diventato Trump le sue attenzioni si sono trasferite su di lui. Quando Trump diceva, nell’ultima fase elettorale, che tutti i sondaggi erano sbagliati, faceva riferimento ai dati che la Cambridge gli forniva: in Ohio ma soprattutto in Pennsylvania le statistiche raccolte da questa società di analisi «psicografica» dell’elettorato segnalavano una fiducia crescente nelle possibilità di vittoria di Trump.

In particolare la Cambridge si è specializzata nella definizione del cosiddetto «voto nascosto», quello di chi non si dichiarava a favore di Trump ma in effetti era intenzionato a votarlo. Come è facile intuire, intercettare queste persone non è stato facile – gli statistici mainstream sostenevano addirittura che non esistesse – ma l’analisi del direttore di questa società che conta soltanto dodici dipendenti dislocati tra New York e San Antonio, ora suona così vera che sembra impossibile non averla notata prima: «Donald Trump non è un candidato repubblicano tipico, quindi non si possono applicare le stesse regole demografiche utilizzate per esempio per Mitt Romney nel 2012 – ha detto il direttore Matt Oczkowski. Usando schemi predefiniti tra i probabili elettori repubblicani, non avremmo mai potuto capire il vincitore della corsa 2016».

La Cambridge, che nasce nel Regno Unito e che non a caso aveva partecipato alla campagna referendaria a favore della Brexit, è riuscita a individuare «tipi» elettorali unici, per i quali è stata sviluppata, negli Stati contesi, una comunicazione ad hoc. Quando si è scoperto che questi «tipi» esistevano anche altrove – per esempio in Wisconsin – il modello si è allargato e così, quando tutti gli statistici dicevano che non c’era chance per Trump, la Cambridge continuava a inviare al candidato report rassicuranti. 

Ora che sappiamo come è andata a finire, è facile riconoscere le avvisaglie, ma i Mercer lo hanno fatto prima, anzi: hanno fatto in modo che quelle avvisaglie si verificassero. Per questo oggi il loro peso è considerato enorme. Gli occhi sono tutti per Rebekah Mercer, quarantadue anni, madre di quattro figli e proprietaria con le sorelle di una pasticceria online, che è già dentro al team di Trump. Il magazine «Politico», a settembre, la definì «la donna più potente del Gop», e ancora una volta non si trattava di un’iperbole.

Da anni la Mercer si occupa di finanziare e indirizzare il partito, è stata spesso critica nei confronti delle «presunzioni» dell’establishment e nel 2012 fu una delle poche ad analizzare la sconfitta di Romney con argomentazioni lungimiranti: la macchina elettorale dei repubblicani è obsoleta, disse, ed è necessario trovare un candidato rivoluzionario. Lei faceva riferimento al mondo dei Tea Party, che conosceva meglio e che allora appariva come l’unica alternativa di successo alla tradizione conservatrice: per questo inizialmente il cavallo vincente le parve Ted Cruz. Poi è arrivato Trump, e niente, neppure per degli insider come i Mercer, è rimasto uguale.