I colpevoli del disastro indiano

I corpi si ammucchiano nelle strade e chi resta non sa come curarsi. Il sistema sanitario pubblico è un rudere. Intanto le feste continuano, il Governo minimizza la pandemia e gli sciacalli fanno affari d’oro
/ 10.05.2021
di Francesca Marino

È bene, stavolta, non cominciare dai numeri. Perché i numeri sono numeri, e per quanto spaventosi siano i 2-300 mila morti dell’India, sono soltanto numeri. Non hanno voci né volti. Non hanno nomi, occhi che ti guardano e mani che ti implorano. Respiri mozzati in cerca d’aria. Dei numeri hanno parlato in tanti. Numeri sottostimati, non tanto per volontà del Governo ma perché ancora, in gran parte dell’India, si nasce e si muore senza che i registri ufficiali ne portino traccia. «Guardavo dalla finestra ieri mattina e sono ancora sotto shock. Mi sono chiesta che cosa ci facesse una donna stesa nel mezzo della strada sotto il sole che già bruciava. Ho capito quasi subito che era morta. Aveva ancora indosso sari e mascherina, nessuno l’aveva toccata. In India nessuno è mai da solo. Nemmeno da morto, perché il corpo di una persona è circondato da parenti e amici che lo accompagnano nell’ultimo viaggio. La vista di un corpo abbandonato in strada, senza nessuno attorno, mi ha spezzato il cuore. Da giorni ormai bruciano corpi dietro casa mia. Pochi al principio, ora si tratta di un flusso costante e ininterrotto». La donna si chiamava Anjali, per la cronaca. Non era un numero. E queste righe sono tratte da una mail mandata da una mia amica di Benares. O Varanasi, come la chiama la burocrazia. La città sacra, la città della morte. La città che ha eletto per ben due volte il premier Narendra Modi.

A Benares, da sempre, la morte fa parte della vita quotidiana. È il posto in cui ogni hindu desidera morire, perché morire a Benares interrompe il ciclo delle rinascite e ti ricongiunge all’Assoluto. I ghat crematori sono due e si trovano al centro della città. L’amica che mi ha mandato queste righe, però, non vive nei pressi di nessuno dei due. Un altro posto per le cremazioni è stato improvvisato sulle rive del Gange oltre i confini ideali della città sacra, a Naghwa, per far fronte all’emergenza. I crematori lavorano a ciclo continuo ma non bastano più, lavora anche il crematorio elettrico che in genere a Benares usano soltanto i poverissimi. La città di Shiva, come il resto dell’India, non ha più mezzi per far fronte né alla morte, né alla vita. I vivi lottano per trovare un letto in ospedale o un cilindro di ossigeno, per procurarsi medicine. Per i morti la legna comincia a scarseggiare, così come lo spazio. I cittadini sono furibondi, accusano il Governo in generale e Modi in particolare per essere stati abbandonati. Vero. Vero anche però che, come avrebbe detto lo scrittore e giornalista italiano Ennio Flaiano, la situazione è grave ma non seria.

Mentre le pire funebri bruciano ininterrottamente e i morti giacciono al ciglio della strada infatti, i benarensi, dopo aver celebrato la festa di Holi in grande stile e la festa di Shivaratri con cortei oceanici e bevute di bhang (una bevanda sacra tratta dalla cannabis), continuano a celebrare matrimoni opulenti «per non perdere l’anticipo già versato». E non sono i soli. Il 5 maggio in Gujarat una folla di migliaia di signore, rigorosamente senza mascherina, celebrava allegramente la festa religiosa di Gangaur. Nel Bengala occidentale, dove come da previsioni Mamata Banerjee ha sconfitto per l’ennesima volta il partito al Governo dopo una campagna elettorale svolta all’insegna degli assembramenti, squadristi dell’una e dell’altra parte si danno la caccia a vicenda inscenando furibonde risse e stupri di gruppo. Mentre la pandemia impazza. Nonostante, a questo punto, tutti abbiano perso un parente o un amico.

Alcuni giornalisti indiani passano le giornate su Twitter cercando di procurare un letto in ospedale o una bombola d’ossigeno a gente che non sa più a che santo votarsi. «Per la prima volta nella storia dell’India – dice uno dei reporter investigativi migliori del Paese – non conta chi conosci o quanto sei disposto a pagare». Barkha Dutt, una brava giornalista indiana, non è riuscita a trovare un letto d’ospedale e un respiratore per suo padre, che è morto due giorni dopo. Una coppia di colleghi, a Delhi, ha cercato disperatamente per giorni bombole d’ossigeno e medicinali da portare al locale ospedale pediatrico che era rimasto senza. Se i numeri li guardi negli occhi, se stringi le loro manine, non riesci a girarti dall’altra parte. O ad andare al ristorante, aperto nonostante tutto. Il Governo, invece, ci riesce benissimo. Continua a negare che ci sia carenza d’ossigeno, sostiene di avere solo problemi nel trasportarlo e distribuirlo. Il mio amico Rajiv, che per poco non moriva in un ospedale pubblico di Uttarkashi, si sente sollevato, adesso. Peccato che a lui, come agli altri pazienti, l’ossigeno servisse giorni fa accanto a un letto d’ospedale, non nei depositi governativi.

Gli unici che sembrano non avere problemi sono gli sciacalli che vendono bombole d’ossigeno al mercato nero. La loro rete di trasporti e distribuzione funziona benissimo, infatti. E fanno affari d’oro. Come fanno affari d’oro quelli che hanno nascosto carichi di farmaci anti Covid, mentre negli ospedali i medici sono costretti a curare il virus con farmaci scaduti o generici. E mentre mezzo Paese lotta contro la pandemia, l’altra metà gioca al gioco delle responsabilità, dei se e dei ma. O continua a negare che esista un’emergenza, etichettando come «anti patriottico» chiunque provi a chiedere risposte o cercare soluzioni. Il vero problema, però, è un altro.
Nessun Governo, da quando esiste l’India e anche da prima (basta leggere le cronache sull’epidemia di Spagnola nel Paese), ha messo mano a una vera e propria riforma sanitaria o costruito una sanità pubblica degna di questo nome.

Gli ospedali pubblici sono dei ruderi, le attrezzature sono a dir poco antiquate e funzionano per metà. Le condizioni igieniche approssimative. E, oltretutto, negli ospedali dello Stato sono gratis soltanto il posto letto e la parcella del medico. Tutto il resto, dalle medicine al cibo, agli esami specialistici e generici, si paga. Se sei povero e ti ammali: muori. Se appartieni alla classe media e non hai un’assicurazione, devi vendere la casa. E così in marzo, mentre timidamente gli esperti lanciavano l’allarme per la nuova ondata imminente, Delhi dichiarava sconfitta la pandemia. Gli ospedali pubblici venivano lasciati nell’abituale desolante condizione in cui si trovano, le vaccinazioni le facevano soltanto i (relativamente) pochi illuminati responsabili mentre il Governo distribuiva vaccini ai Paesi confinanti e all’Africa. Ah, il vaccino costa 1’500 rupie: una settimana di cibo per una famiglia media.