I bronzi del Benin torneranno a casa?

Negli Stati Uniti si sta discutendo dell’opportunità di restituire opere d’arte sottratte a monarchi africaniarricchitisi anche grazie allo schiavismo. Militanti anti-razzisti afromericani si oppongono all’idea
/ 05.06.2023
di Federico Rampini

«Ha cinque mogli, una Rolls Royce da mezzo milione, e sta cercando di recuperare opere d’arte del valore di 30 miliardi di dollari che furono rubate ai suoi antenati 126 anni fa. Alcune delle quali figurano tra i tesori più pregiati del Metropolitan Museum di New York». Così cominciava un articolo pubblicato sul «New York Post» che ha rivelato una vicenda ricca di colpi di scena, e densa d’insegnamenti sulla storia africana. La sorpresa più grossa: dei militanti «black» di New York si oppongono alla restituzione di quelle opere di valore all’Africa. Con un argomento ineccepibile: è vero che furono sottratte agli avi di un attuale monarca africano, ma loro avevano accumulato quelle ricchezze attraverso il commercio di schiavi. E così, grazie a dei radicali anti-razzisti afroamericani, politicamente vicini al movimento Black Lives Matter, si è potuto affrontare un tabù che pochi statunitensi bianchi oserebbero sfiorare: le profonde radici che lo schiavismo e il commercio di carne umana avevano nella tradizione africana, molto prima che vi comparissero gli imperi europei.

La vicenda ha avuto uno strascico a Berlino. La Germania è una pioniera nella restituzione dell’arte rubata durante il periodo coloniale. Berlino ha trasferito la proprietà di 1100 capolavori, noti come «bronzi del Benin», da cinque musei tedeschi al Governo della Nigeria. Ma quando hanno scoperto che tanti capolavori sarebbero stati consegnati alla collezione privata di un monarca anziché a un museo pubblico, alcuni tedeschi si sono sentiti gabbati. Un’autorevole studiosa, l’etnologa Brigitta Hauser-Schaeublin, ha scritto sulla «Frankfurter Allgemeine Zeitung» che l’operazione era «un fiasco». La deputata cristiano-democratica Dorothee Baer ha accusato il Governo di «aver condannato un patrimonio di arte africana all’oblìo, svanito dentro la proprietà privata di un monarca nigeriano».

«È una débacle», ha dichiarato il deputato dell’estrema destra (AfD) Marc Jongen. Di fronte a queste contestazioni venute dalla Germania, e per di più da politici di destra, è scattata una difesa facile. Lo scrittore nigeriano Victor Ehikhamenor si è indignato: «Come osa questa gente, con quale arroganza pensa di decidere cosa dobbiamo fare con degli oggetti dei quali aspettiamo la restituzione da 126 anni? Questo è neocolonialismo, è offensivo». L’artista nigeriano ignorava, o ha finto di non sapere, che quella restituzione veniva contestata da militanti «black» degli USA, con un’argomentazione progressista: il re a cui sono state consegnate quelle opere d’arte è straricco grazie ai profitti che i suoi antenati accumularono con la tratta degli schiavi.

Il protagonista odierno di questa vicenda è il re del Benin, Oba Ewuare II. Un personaggio interessante perché mescola sapientemente modernità e tradizione africana: a 69 anni la sua vita si è divisa tra gli Stati Uniti dove prese un master alla Rutgers University nel New Jersey e lavorò all’ONU, e il Paese dei suoi avi. Quando era un funzionario dell’ONU andava al Palazzo di Vetro in giacca e cravatta, ma quando giunse il suo turno per l’incoronazione tornò in patria a indossare gli abiti antichi della sua stirpe regale. Il Regno del Benin, da non confondere con l’attuale Stato africano che porta lo stesso nome, oggi è incorporato nella Nigeria. Re Oba Ewuare II non ha un potere di Governo, almeno ufficialmente, però gode di un’influenza notevole nella sua comunità tribale, gli Edo, insediati nella parte meridionale della Nigeria, attorno a Benin City. I monarchi tribali sono corteggiati dai politici nigeriani nelle campagne elettorali, e coperti di prebende a spese dello Stato, perché possono portare voti a questo o quel candidato. Aristocrazia a parte, sono tuttora dei notabili potenti. Siamo in epoca di espiazione dei nostri peccati coloniali e tutta la comunità museale d’Occidente è impegnata ad autoflagellarsi per gli orrori del nostro passato. In questi riti di pentimento vengono spesso annunciate restituzioni di opere d’arte alle ex-colonie depredate.

Interi musei vengono ristrutturati e ripensati, con percorsi di spiegazione e didattica centrati sulla denuncia dei crimini dell’Europa: un caso esemplare si trova nella capitale dell’Unione europea, a Bruxelles. Nel quartiere di Tervueren, in un magnifico parco, era situato il Musée du Congo alimentato dal bottino di Re Leopoldo, uno dei colonialisti più spietati e feroci della nostra storia (i suoi crimini ispirarono il romanzo Cuore di tenebra di Joseph Conrad). Dopo essere stato chiuso per anni, occupato da lavori di ristrutturazione, quel luogo è stato riaperto al pubblico con un nome diverso – ora si chiama Musée de l’Afrique – e un contenuto rimaneggiato. Anziché essere una collezione acritica di tesori rapinati nell’era coloniale, è diventato un centro di educazione al pentimento dei belgi e degli europei sugli orrori del colonialismo. I tesori d’arte che vi rimangono – tanti e importanti – sono piegati a questa missione didattica, riabilitativa. Questo tipo di operazioni culturali sono frequenti in tutto l’Occidente nel nostro tempo. L’Africa è diventata il motore trainante per la riscrittura della nostra storia, all’insegna dell’auto-condanna: tutte le sofferenze che abbiamo inflitto a quel Continente sono la prova che noi siamo l’Impero del male, gli unici portatori del virus della conquista violenta, dell’oppressione, dello sfruttamento, dell’imperialismo coloniale.

Perciò ci si sarebbe aspettato che i militanti «black» dell’antirazzismo radicale negli Stati Uniti applaudissero alla scelta del Metropolitan Museum di New York di restituire l’arte rubata ai discendenti dei proprietari originali. Nella fattispecie, i negoziati sul rimpatrio in Nigeria riguardano 154 bronzi del Benin, una collezione di tesori pregevoli, tra i più interessanti capolavori dell’arte africana custoditi al MET. Ora quei tesori rischiano di rimanere negli Stati Uniti, malgrado tutta la buona volontà del Metropolitan Museum di espiare le colpe del colonialismo. La causa giudiziaria che punta a bloccare la restituzione è stata avviata da una ONG che si chiama Restitution Study Group e si occupa proprio dei ritorni di opere d’arte nei loro luoghi d’origine in Africa. Alla testa del Restitution Study Group c’è Deadria Farmer-Paellman, avvocatessa afroamericana che vive tra New York e New Orleans.

La causa giudiziaria lanciata dal Restitution Study Group è clamorosa in quanto infrange un tabù, osa aprire uno squarcio su una realtà storica che non viene insegnata nel sistema scolastico e universitario USA, tantomeno appare sui media o nei film di Hollywood: lo schiavismo come sistema economico radicato nella storia antica dell’Africa, non una mostruosità imposta dai colonizzatori bianchi. Per la cultura oggi dominante negli Stati Uniti, il Vangelo è la Critical Race Theory che si concentra sul «razzismo sistemico» della società americana e delle sue istituzioni. Lo schiavismo viene studiato come un peccato originale nel DNA degli Stati Uniti, un carattere che segna la loro storia fin dalla fondazione da parte di coloni bianchi, un orrore mai del tutto superato. In questo clima americano, evocare l’autonoma tradizione schiavista degli africani è un’eresìa. La sfida legale del Restitution Study Group, seppure involontariamente, può contribuire a restaurare la verità storica.