Non ci sono parole per descrivere la situazione in Siria. A dieci anni dall’inizio della primavera araba e delle proteste di piazza contro il governo di Bashar al-Assad, il Paese è un cumulo di macerie e cenere, almeno 500mila persone sono morte, gli sfollati interni sono quasi 6 milioni e altrettanti hanno cercato rifugio nei Paesi vicini. Ma nemmeno le cifre sono in grado illustrare ciò che hanno vissuto le siriane e i siriani dal marzo 2011 a oggi. I loro sogni di democrazia, libertà, un futuro migliore sono stati annientati dalle pallottole e dalle bombe. Oggi, 13 milioni di persone dipendono dagli aiuti umanitari internazionali. Per la Svizzera si tratta dell’impegno umanitario più consistente di sempre. Dal 2011 ha stanziato più di mezzo miliardo di franchi per alleviare le sofferenze delle vittime del conflitto o, dov’è possibile, promuovere lo sviluppo in Siria, ma anche in Giordania, Libano, Iraq e Turchia. «A volte, soprattutto quando le crisi si ripetono, ho quasi l’impressione di essere come Sisifo», dice Manuel Bessler, capo dell’Aiuto umanitario della Direzione dello sviluppo e della cooperazione della Confederazione. «In Siria, i bisogni sono giganteschi. L’esperienza mi ha insegnato che non bisogna però guardare a una crisi umanitaria nel suo insieme, bensì aiutare lì dove la Svizzera ha particolari competenze. Il nostro intervento può fare la differenza per il singolo rifugiato o per una famiglia se, per esempio, grazie a noi hanno accesso all’acqua potabile. La motivazione mi viene proprio da questi piccoli ma importanti successi».
Signor Bessler, quando è stato l’ultima volta in Siria o nei Paesi confinanti?
Purtroppo, sono già trascorsi più di due anni. Era l’estate 2019 quando ho potuto recarmi per l’ultima volta a Damasco e visitare Homs e Deir el-Zor. L’anno scorso volevo ritornarvi, ma la pandemia ha sconvolto i miei piani. Per me è importante recarmi sul posto delle crisi per rendermi conto in prima persona delle necessità della gente e per vedere la situazione con i miei occhi. A causa della pandemia è diventato molto difficile accedere ai Paesi dove siamo attivi, non solo in Siria, ma anche in Etiopia, Afghanistan o Mali. Ciò non ci facilita di certo il lavoro sul campo.
Dal 2017, la Svizzera ha un ufficio a Damasco. Quanto è importante per le vostre attività in Siria?
È fondamentale, come lo sono la trentina di uffici dell’Aiuto umanitario sparsi per il mondo. Ci permettono di valutare direttamente quali sono i bisogni della gente. Quella in Siria è la più grande operazione umanitaria della Svizzera. Forniamo aiuti per oltre 60 milioni di franchi all’anno, anche nei Paesi circostanti. È quindi importante poter controllare come vengono impiegati questi fondi. Sarebbe impossibile farlo senza essere sul posto, soprattutto in un contesto così complesso come quello siriano. I due collaboratori del Corpo svizzero di aiuto umanitario a Damasco hanno il compito di seguire i progetti delle nostre organizzazioni partner registrate a Damasco, valutare l’evolversi della situazione e, se necessario, adeguare i nostri programmi. L’ufficio umanitario fa inoltre parte di una struttura regionale che segue, ad esempio, gli aiuti forniti da Paesi vicini come la Turchia e la Giordania.
E su quali interventi umanitari punta la Svizzera? I bisogni sono enormi. 13 milioni di persone, in Siria e nei Paesi confinanti, dipendono dagli aiuti umanitari internazionali.
I bisogni sono giganteschi e la Svizzera non può aiutare tutti. Per questo motivo è importante puntare sulle proprie competenze. Solo così è possibile fornire un contributo fondamentale alla popolazione locale. Prendiamo l’esempio dell’approvvigionamento idrico, campo in cui abbiamo conoscenze specialistiche. In questi anni abbiamo realizzato vari pozzi nei campi profughi in Giordania, fonti d’acqua a cui può attingere anche la popolazione locale. Poi collaboriamo con partner bilaterali e multilaterali, per esempio il Programma alimentare mondiale delle Nazioni Unite, l’UNICEF, il Comitato internazionale della Croce Rossa – abbiamo consegnato dodici ambulanze alla Mezzaluna Rossa Siriana araba a Damasco – o ONG locali, sostenendo finanziariamente i loro progetti sul terreno. Nello specifico sosteniamo sia l’aiuto umanitario d’urgenza, sia la protezione dei civili. Rafforziamo inoltre la resilienza della popolazione e l’accesso ai servizi di base.
È cambiato qualcosa per voi, dal punto di vista degli aiuti umanitari, con la diminuzione dei combattimenti?
È vero, si combatte meno. Ma nel Nord-ovest, nella regione intorno a Idlib e nella zona a Nord-est, controllata dai curdi, si continua a sparare. A parte la Cina, tutti i membri permanenti del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Uniti sono coinvolti, in una maniera o in un’altra, in questa crisi. E ciò dimostra quanto la situazione sia complessa ed esplosiva. Meno scontri, non significa necessariamente più aiuti. Noi dipendiamo dalla possibilità di accedere alle varie aree. Prima che un convoglio possa mettersi in viaggio in direzione di Aleppo, Idlib o Deir el-Zor, le organizzazioni umanitarie hanno bisogno dei permessi del governo di Damasco o delle altre parti in conflitto. Spesso bisogna trattare con attori poco affidabili e che non hanno il controllo su tutti i checkpoint. A volte se ne devono superare 20-25. Il contesto in cui siamo chiamati ad operare continua ad essere molto complesso. Serve una rete di contatti con chi detta le regole del gioco.
E se tutto ciò non bastasse, è arrivata la pandemia di COVID-19 con una conseguente crisi economica che ha ulteriormente peggiorato la situazione.
In effetti, è una crisi nella crisi. Il virus è un pericolo anche per le collaboratrici e i collaboratori sul campo. È un nostro dovere assicurare la loro sicurezza, mettere a disposizione test e vaccini, anche a Damasco. Non è stato per nulla semplice perché non ci sono collegamenti aerei e le frontiere sono rimaste a lungo chiuse. La pandemia ci ha naturalmente obbligato ad adeguare i nostri programmi. Improvvisamente, la gente attiva nel settore informale è rimasta senza lavoro. Anche chi aveva un reddito durante la guerra, è scivolato nella povertà più estrema. La percentuale di persone bisognose è aumentata in maniera esponenziale negli ultimi due anni. Per questo motivo abbiamo aumentato il sostegno finanziario a favore del Programma alimentare mondiale dell’ONU su scala mondiale. Va ricordato che non disponiamo di un budget illimitato e che quindi dobbiamo dosare con attenzione i nostri mezzi economici destinati ai vari partner. Anche perché quella siriana non è l’unica crisi al mondo. In certi casi abbiamo ridotto o interrotto dei programmi di ricostruzione perché abbiamo dovuto dirottare mezzi finanziari verso l’aiuto umanitario d’emergenza.
Eppure sarebbe fondamentale investire nella ricostruzione, penso soprattutto alle scuole. Si rischia altrimenti di perdere un’intera generazione, quella che dovrebbe dare forma alla Siria di domani.
Un bambino che nel 2011 aveva cinque anni ha vissuto per dieci anni in mezzo al terrore, alle bombe, e magari non ha mai avuto la possibilità di andare a scuola. Non tutte le scuole sono state distrutte, molte sono rimaste però chiuse. In Siria, la Svizzera collabora con diverse organizzazioni partner per permettere a ragazze e ragazzi di tornare dietro ai banchi. Inoltre investe in progetti infrastrutturali e così abbiamo ripristinato o ricostruito scuole in Libano e in Giordania, con la condizione che anche le figlie e i figli delle famiglie siriane potessero ritornare in aula. Questi interventi ci hanno permesso di offrire un’educazione e una formazione ai giovani. Certo, si sopravvive anche senza andare a scuola, ma la Siria ha bisogno di giovani che diano un futuro al Paese.
Senza pace non c’è però futuro in Siria. Quale ruolo ha la Svizzera nel processo di pace promosso dalle Nazioni Unite?
Non c’è una soluzione umanitaria ai problemi politici, nemmeno per il conflitto siriano. È fondamentale che l’aiuto umanitario, il rispetto del diritto internazionale umanitario, la lotta contro l’impunità e il processo politico siano promossi insieme. Sul breve termine è importante soccorrere la popolazione siriana, ma per la ricostruzione del Paese ci vuole la pace. Per questo motivo, la Svizzera sostiene progetti umanitari, ma anche i processi volti a riportare la pace in Siria. Per esempio, discutiamo soluzioni e sinergie con l’inviato speciale dell’ONU per la Siria, Geir Pedersen, che ha il suo ufficio a Ginevra. Vogliamo dimostrare che è vantaggioso per tutti gli attori coinvolti mettere fine agli scontri armati. Dobbiamo tuttavia evitare che l’aiuto umanitario venga strumentalizzato. Noi ci orientiamo sempre ai bisogni delle persone, non importa da quale parte stiano.
Con un ufficio a Damasco, quindi sotto il controllo di Assad, la Svizzera non rischia però di essere strumentalizzata dal governo?
L’aiuto umanitario della Svizzera si basa su principi umanitari: sosteniamo le persone in difficoltà, indipendentemente dalle linee di conflitto. Per questo il nostro assetto è regionale. Siamo di stanza a Damasco con l’ufficio umanitario e ad Amman e Ankara con le rappresentanze svizzere. Facciamo in modo che le persone in tutta la Siria, sia nel territorio controllato dal governo che altrove, ricevano aiuto. La Svizzera presta aiuto a tutti. Assicuriamo i rifornimenti ai territori in mano all’opposizione, partendo dalla Turchia attraverso i valichi di frontiera oppure dalle aree controllate dal governo attraverso le linee del fronte. È vero, l’autorizzazione e i permessi ci vengono dati dal governo, ma siamo noi a decidere chi aiutare, quali ospedali riabilitare o a chi destinare i nostri aiuti. Ma non possiamo nemmeno dimenticare che dobbiamo trattare con chi detiene il potere.
Le parti in conflitto tentano continuamente di bloccare gli aiuti umanitari o di sfruttarli a proprio vantaggio. Al momento c’è un solo valico di frontiera ancora aperto tra la Turchia e i territori in mano alle forze dell’opposizione in Siria. Ora anche quest’ultimo passaggio rischia di essere chiuso.
Ciò dimostra, ancora una volta, quanti attori sono coinvolti in questo conflitto. Inizialmente c’erano quattro valichi di frontiera aperti, dall’estate 2020 è uno solo, quello di Bab el-Hawa. È l’unico che permette alle Nazioni Unite di accedere alla regione intorno a Idlib. Quest’estate una risoluzione dell’ONU che permette le attività transfrontaliere dovrebbe essere prorogata dai membri del Consiglio di sicurezza. E qui entra in gioco l’attività politica della Svizzera a New York. Si tratta di un lavoro di lobby e dialogo fondamentale con le parti in causa – Russia, USA, Cina e Stati europei – affinché il valico rimanga aperto. Non possiamo lasciare niente di intentato. La chiusura di questo passaggio avrebbe ripercussioni drammatiche per le operazioni umanitarie e per la popolazione nel Nord-ovest della Siria.
«I bisogni sono giganteschi»
Crisi siriana - 13 milioni di persone dipendono dagli aiuti umanitari internazionali. La Svizzera è presente in Siria e nei Paesi confinanti con progetti e programmi. Intervista a Manuel Bessler, capo dell’Aiuto umanitario della Direzione dello sviluppo e della cooperazione della Confederazione
/ 09.08.2021
di Luca Beti
di Luca Beti