Durante l’assemblea delle Nazioni Unite, perfino il presidente americano Donald Trump, dopo settimane di risposte vaghe e prese di posizione diplomatiche, ha detto che Pechino «deve proteggere la libertà e il sistema democratico di Hong Kong». L’anniversario del 1. ottobre, quando una mastodontica parata per le vie del centro della capitale cinese celebrerà il settantesimo anno dalla fondazione della Repubblica popolare, è più che mai sensibile per il governo di Pechino. E la presa di posizione dell’Amministrazione americana rischia di essere un altro motivo di scontro tra i due modelli, tra occidente e oriente, tra un sistema legato all’influenza americana e un altro, di recente sviluppo, legato invece alla Cina. Ed è sul territorio di Hong Kong – su quelle decine di migliaia di persone che ormai da mesi ogni fine settimana sfidano i divieti e scendono in piazza– si sta configurando la divisione più evidente, e forse la più pericolosa. «Quella di Hong Kong è la linea del fronte della battaglia globale per la libertà», ha scritto a giugno la giornalista Feliz Solomon sul «Time»: un titolo che riduce la questione a un’idea romantica di sistemi contrapposti, ma che pone un problema quanto mai attuale: «L’ascesa di Pechino è la storia internazionale più importante del nuovo secolo. Ma l’enormità di questa ascesa e le diverse aree in cui sta spingendo il suo predominio – il commercio, le infrastrutture, la finanza, la tecnologia– sono servite finora a mascherare la natura del sistema che la Cina porta con sé. Quel sistema è il controllo».
Per Pechino Hong Kong è un «affare interno». In queste diciassette settimane di proteste, iniziate con i cortei contro la riforma della legge sull’estradizione poi ritirata dall’amministrazione locale di Hong Kong, il governo centrale di Pechino ha più volte accusato l’Occidente di intromettersi nei suoi affari interni. Tecnicamente Hong Kong è territorio cinese, ma sin dal 1997, quando la Gran Bretagna riconsegnò la colonia alla Cina, il modello di «un paese, due sistemi» avrebbe dovuto essere la barriera oltre la quale il Partito unico di Pechino non avrebbe potuto esercitare il proprio potere, garanzia dell’autonomia democratica della regione. Un’illusione, la definiscono i ragazzi che oggi combattono contro quel sistema. Chiedono elezioni democratiche, cioè la possibilità di scegliere autonomamente il proprio governo locale. E invocano direttamente l’aiuto di Londra e di Washington. È anche per questo che ciò che sta succedendo al di là del Pacifico, per le strade dell’ex colonia inglese, va ben oltre la semplificazione di uno scontro di carattere locale, di una «guerriglia urbana» che non si riesce a domare.
Lo dimostrano le manifestazioni di solidarietà nei confronti dei «ragazzi di Hong Kong» che recentemente hanno coinvolto varie città nel mondo. Perché anche fuori dai confini nazionali il modello cinese divide: in Australia per esempio, dove l’immigrazione cinese è parte determinante della popolazione, ogni marcia di solidarietà è stata accompagnata da contromanifestazioni pro-Cina, da troll in carne e ossa che poi, come riportato da vari media internazionali, si trasformano in troll virtuali e insultano e minacciano. C’è quindi una generazione che ha vissuto sperimentando la democrazia, la libertà di espressione, la libertà di movimento, e vuole assicurarsela anche per il futuro – anche la popolazione di Hong Kong è divisa al suo interno, con gli anziani più conservatori e i cittadini più giovani che temono la cancellazione definitiva dell’autonomia della regione.
Ma quelli che si oppongono al modello occidentale e difendono il sistema cinese non sono soltanto gli anziani. Tutt’altro. Anche all’estero, e tra chi ha studiato, ha viaggiato e vissuto fuori dai confini nazionali, c’è chi vive il sogno del presidente Xi Jinping della Nuova Cina come l’unico modello capace di ristabilire l’ordine mondiale di un tempo, prima del cosiddetto «secolo delle umiliazioni»: l’ordine sinocentrico.
Alla base di tutto c’è la rinnovata ideologia di un leader forte come Xi, che ha imposto la propaganda e il patriottismo sin dai primi anni di scuola e ha riabilitato una sorta di culto della personalità nei suoi confronti. Ma c’è anche l’idea, sempre più diffusa nei Palazzi del potere e nelle accademie internazionali, del fallimento del sistema americano, che spinge i paesi asiatici a riconsiderare la propria postura internazionale verso la Cina, soprattutto dopo l’elezione di Donald Trump. È anche questo il motivo per cui quelle di domani saranno le celebrazioni più imponenti della storia della Repubblica popolare cinese: un messaggio di forza e potenza al mondo. Ma è possibile che la spina nel fianco di Pechino, Hong Kong, cercherà di rendergli indigeste le celebrazioni.
«Un scontro di proporzioni monumentali sta per arrivare», ha detto al «Washington Post» Orville Schell dell’Asia Society. «È chiaro che accadrà qualcosa il 1. ottobre». «I funzionari cinesi hanno fatto di tutto per garantire la “stabilità” nella città di Pechino il giorno della sfilata», ha scritto Anna Fifield, corrispondente dalla capitale cinese. «Sono stati banditi i piccioni viaggiatori e gli aquiloni. Negli aeroporti e nelle stazioni ci saranno ulteriori controlli di sicurezza. Ai giornalisti cinesi è stato ordinato di scrivere solo cose positive, a quelli stranieri è stato detto di non affacciarsi dai balconi per evitare di essere colpiti dai cecchini. Al cielo è stato ordinato di essere blu. Ma le proteste a Hong Kong – e le simpatie che stanno suscitando a Taiwan, che Pechino considera una sua provincia ribelle – dimostrano che non tutti condividono il “Sogno cinese” di Xi Jinping». C’è un altro sogno, e altre persone disposte a combattere per renderlo realtà.