Di ritorno da Helsinki dove ho seguito il vertice fra Donald Trump e Vladimir Putin, come giornalista italiano devo confessare una sensazione di «déjà vu». Non è la prima volta che accade, ma forse mai come in questo summit è apparso un parallelismo tra l’America trumpiana e i nostri anni con Silvio Berlusconi. Un leader impreparato che colleziona figuracce all’estero. Una stampa – da lui odiata e svillaneggiata – che lo insegue e lo tallona solo per fargli domande sugli scandali nazionali, ignorando l’oggetto del summit. Una conferenza stampa che diventa un match a fini di politica interna. Non proprio una sensazione gradevole, anche perché in questo caso stiamo parlando di quello che un tempo si sarebbe definito «il leader del mondo libero», alle prese con un autocrate. Su chi dei due abbia tratto beneficio dal summit, non esistono dubbi.
Il copione mi obbliga quindi a partire dall’aspetto domestico, che alla fine ha prevalso, anche se non è affatto il più importante. Ma è chiaro che lo stesso Trump appena ha lasciato Helsinki si è dovuto dedicare a un esercizio di «damage control», cioè riduzione del danno, perché si è accorto del disastro di immagine. «Volevo dire tutto il contrario». La retromarcia è clamorosa perfino per uno che ha l’abitudine di contraddirsi. Sorpreso dal boato di disapprovazione sul vertice di Helsinki – anche in casa repubblicana – 24 ore dopo il presidente si stava rimangiando quel che aveva detto nella conferenza stampa finale con Putin. Nella quale, riassumendo e semplificando, Trump aveva attaccato l’Fbi, l’intelligence, la giustizia del suo Paese, sposando la versione russa sulle ingerenze nella campagna elettorale del 2016: tutte balle. Uno spettacolo senza precedenti, una resa al nemico, agli occhi di molti americani e non solo i suoi avversari di sinistra.
Appena rientrato a Washington, è scattato il contrordine, Trump ha riabilitato le conclusioni dell’intelligence americana sull’interferenza di Mosca. La correzione di rotta era necessaria perché lo sdegno era diffuso anche tra i repubblicani. Il partito del presidente, per quanto in preda a una sorta di mutazione genetica nell’era del populismo, non ci sta ad avallare la svolta russofila in politica estera. La reazione più dura (come sempre) è stata quella del senatore John McCain: «Nessun presidente americano si era mai umiliato in modo così abietto davanti a un tiranno». Parole severe sono venute da tanti colleghi di McCain, i senatori Bob Corker del Tennessee e Jeff Flake dell’Arizona, Susan Collins del Maine e Charles Grassley dell’Iowa, Rob Portman dell’Ohio e Ben Sasse del Nebraska. Un punto basso per Trump, colto di sorpresa. Pare che lui stesso abbia cominciato a capire l’entità del disastro a bordo dell’Air Force One sulla via del ritorno, quando ha visto i notiziari televisivi sulla conferenza stampa.
Per il suo orgoglio, il danno peggiore è stato il vedersi descritto come pusillanime di fronte a Putin, manipolato e soggiogato davanti alle telecamere. Trump si aspettava di poter sceneggiare un evento spettacolare come a Singapore con Kim Jong-un. Aveva sottovalutato le enormi differenze: la Russia è una superpotenza le cui truppe e arsenali nucleari sono al confine con la Nato; è il nemico storico della Guerra fredda; un’inchiesta in corso sta accumulando prove sulla sua ingerenza nella campagna elettorale. I media in trasferta hanno affrontato l’evento di Helsinki con tutt’altra predisposizione rispetto a Singapore, decisi a chiedere conto a Trump sui sospetti di collusione. Lui ci è cascato in pieno, avallando quei sospetti, per la fiducia cieca che ha mostrato nei confronti dell’ex spia del Kgb. Salvo rinnegarla l’indomani a Washington.
Ma il disastro avrà conseguenze politiche interne? È poco probabile. Il dissenso repubblicano è stato ampio ma rientrerà presto. Con l’avvicinarsi dell’elezione legislativa di mid-term (6 novembre), non conviene ai candidati repubblicani mettersi contro il presidente. La base di Trump preferisce lui rispetto ai repubblicani del Congresso.
Lasciamo la politica interna, e torniamo alla nefasta prestazione di Helsinki. In quella conferenza stampa Trump ha toccato un punto basso ma non solo per le risposte sul Russiagate. I pasticci sono stati molteplici: imbarazzanti silenzi sui dossier più importanti della politica estera; un senso generale di soggezione e inferiorità di fronte a Putin. Quest’ultimo nei botta e risposta con la stampa appariva il vero padrone del gioco: Putin è arrivato a «spiegare» la posizione americana sulla Crimea, pur ribadendo che è diversa dalla sua. Trump non ne ha fatto cenno. Ha dimenticato le sanzioni e l’Ucraina, le espulsioni di diplomatici come risposta all’attentato ordito da Mosca contro un agente russo sul territorio inglese. Ha evitato ogni accenno alla Nato. Per Putin il bilancio è trionfale. Trump ha aperto la sua dichiarazione finale constatando che le relazioni tra i due paesi «non erano mai state peggiori», l’abisso fu toccato in quest’ultimo periodo, altro che Guerra fredda. Tutta colpa del duo Obama-Clinton, insomma: ed è esattamente la versione di Putin, che finalmente regola il conto con l’odiato duo democratico.
La conferenza stampa era stata preceduta da un summit in due atti. La prima parte top secret: c’erano solo i due leader affiancati dai rispettivi interpreti, nessun ministro o diplomatico o consigliere. Cosa si siano detti lo sanno solo loro e gli interpreti. Il colloquio ultra-riservato si è esteso ben oltre il previsto, due ore. Solo in seguito si è allargato alle delegazioni governative. Il formato inusuale eccita la dietrologia, viste le tante «connection russe» attribuite a Trump, e non solo in campagna elettorale. Il «Financial Times» ha rivelato legami pericolosi con la finanza criminale russa, all’epoca in cui l’immobiliarista newyorchese aveva fatto bancarotta, le banche rispettabili non lo finanziavano più, e trovò aiuto presso un oligarca.
La rissa fra Trump e i media sul Russiagate, non intacca la portata vera del summit. Putin ha potuto affermare che «non c’era alcuna ragione solida» per il deterioramento delle relazioni tra i due Paesi. Ha elencato tutte le «crisi regionali» su cui la Russia può aiutare l’Occidente: dalla Siria al terrorismo islamico. Trump ha promesso che «il nostro dialogo darà frutti positivi per le nostre due nazioni ed anche per il mondo intero, fra le due superpotenze che controllano il 90% degli arsenali nucleari il dialogo è sempre preferibile».
Un ordine internazionale sembra sul punto di dissolversi a 70 anni dalla sua fondazione da parte di Franklin Roosevelt, Harry Truman, George Marshall, e una vasta famiglia di leader dell’Europa occidentale di estrazione democristiana, liberale, socialdemocratica. Quel sistema subisce l’attacco concentrico di Trump e Putin ma non solo quello. È minato al suo interno da una profonda crisi di fiducia. Molti americani ed europei, cittadini e leader, sembrano aver perso interesse verso l’integrazione europea, la cooperazione atlantica; ritengono che queste abbiano esaurito la propria funzione storica. Se quest’ordine tramonta, chi ci guadagna, chi vince e chi perde? Trump e Putin hanno piani alternativi?
Gli assetti internazionali – alleanze, sistemi di regole condivise – non sono eterni. Pace di Vestfalia, Congresso di Vienna, le coalizioni variabili che cercarono di stabilizzare l’Europa e prevenire l’emergere di una potenza egemone, tutto ha avuto un inizio e una fine. La sensazione che la Nato abbia perso utilità, è evidente nei comportamenti di diversi paesi membri che da anni rifiutano di pagarne i costi. Adesso anche l’America trumpiana, più mercantilista che isolazionista, vede i partner europei come dei parassiti. Gli attacchi senza precedenti di Trump all’Europa «nemica» vengono solo a rafforzare dall’esterno una perdita di coesione e di convinzione. Che vantaggi possono ricavare i due protagonisti del vertice di Helsinki?
Putin appare come un sicuro beneficiario della disgregazione a Ovest. Coglie l’occasione della rivincita, dopo aver costruito la sua leadership sulla narrazione di un accerchiamento occidentale. Ha raccontato al suo popolo che da Gorbaciov a Eltsin ci fu un lungo tunnel di umiliazioni, ora la grande Russia si riprende il suo ruolo fra le nazioni, e un rapporto di quasi-parità con l’America. Un concreto recupero d’influenza è già in atto in Medio Oriente e potrà estendersi all’Europa: dove le lobby confindustriali si uniscono ai diversi partiti russofili nel chiedere la fine delle sanzioni. Al momento opportuno Putin potrà rilanciare il suo vecchio progetto di una comunità economica Eurasiatica. L’obiettivo finale è spezzare l’aggancio «innaturale» Ue-Usa, risucchiare l’Europa nel suo alveo naturale: piccola propaggine del continente asiatico.
Trump non ha una visione geostrategica. C’è però un elenco di benefici che lo attraggono verso la distruzione dell’atlantismo. Il risparmio sulle spese militari. Il ritorno a un bilateralismo nei rapporti commerciali che esalta il potere contrattuale dell’America. Se si va verso una sorta di G3 Usa-Russia-Cina, un direttorio delle superpotenze potrebbe stabilizzare alcune aree turbolente del globo, evitando all’America oneri e rischi legati al ruolo di gendarme mondiale. Questo scenario però implica la presa d’atto che la leadership americana è in declino e va condivisa; inoltre che gli unici interlocutori efficaci sono regimi autoritari o «democrature» illiberali. Il nuovo ordine sarebbe comunque instabile. Cina e Russia sono «potenze revisioniste»: cioè non accettano lo status quo, vogliono cambiare i rapporti di forze e rivedere le sfere d’influenza.