Pater Patriae. Così la «Frankfurter Allgemeine Zeitung» saluta Helmut Kohl dopo l’annuncio della morte a Ludwigshafen, la città palatina in cui nacque ottantasette anni fa e da cui prese le mosse la sua ascesa fino ai vertici dell’Unione cristiano-democratica e del governo federale. La stessa «Faz» riassume i meriti storici del Cancelliere della riunificazione: ha riparato gli errori di Bismarck, così gravidi di conseguenze negative, ha reso possibile e ragionevole il consolidamento dell’amicizia con i vicini francesi. Effettivamente se c’è un’immagine che rappresenta al meglio i sedici anni di governo del Cancelliere è proprio quella di Verdun, mano nella mano con il presidente François Mitterrand, davanti alla sterminata distesa di croci che ricorda il reciproco massacro franco-tedesco della Grande Guerra.
La riconciliazione dei due mondi separati dal Reno, dopo secoli di sanguinosa ostilità, è alla base del processo d’integrazione continentale che ha portato all’Unione Europea, e in ultima analisi ha reso la riunificazione tedesca, per riprendere le parole della «Faz», possibile e ragionevole. Perché quando cadde il Muro di Berlino e si prospettò sull’orizzonte della storia la grande Germania unita il mondo ebbe paura, e il Cancelliere seppe sconfiggere quella paura assicurando che «l’Europa è il nostro futuro», e puntando sulla grande scommessa la posta più cara, il marco, prima iniettandolo nell’esausta economia orientale con un azzardato cambio alla pari, quindi imponendo ai tedeschi il sacrificio dell’amatissima valuta nazionale sull’altare dell’euro. Al suo fianco nella spettacolare impresa unitaria un abile Vicecancelliere, il ministro degli Esteri liberal-democratico Hans-Dietrich Genscher.
In quegli anni, fra i tumultuosi eventi che portarono alla riunificazione, esitava lo stesso Mitterrand, nonostante Verdun e l’amicizia personale con il Cancelliere. Per non parlare della spigolosa Margaret Thatcher. Fu proprio un periodico inglese a sintetizzare la questione con una famosa vignetta che traeva spunto dalla stazza imponente del capo del governo tedesco, non a caso chiamato dai media «gigante nero» (nero è il colore convenzionale delle Unioni cristiane). Vi erano raffigurati la Thatcher e Kohl dalla cintola in su, la lady di ferro si rivolgeva al suo massiccio interlocutore: signor Cancelliere per favore si sieda, è così grande e ci rende tutti così nervosi... Risposta di Kohl: ma io sono già seduto! Se Londra e Parigi tentennavano, a dare finalmente via libera all’unità furono gli altri due titolari dei diritti sulla Germania ereditati dalla vittoria alleata del 1945: gli Stati Uniti di George Bush padre e l’Unione Sovietica di Michail Gorbaciov.
E così il Cancelliere si trovò di fronte alla sfida più difficile, la transizione di quella che era stata la Repubblica Democratica Tedesca verso l’economia di mercato. Fu un passaggio doloroso, che i troppi lavoratori dell’asfittico sistema produttivo comunista pagarono con una disoccupazione diffusa. La prospettiva delineata da Kohl, secondo cui le province orientali sarebbero diventate un blühendes Land, un paese in fiore, si allontanò nel tempo, mentre gli immensi costi della riunificazione appesantivano il bilancio federale rafforzando l’ossessione tedesca per le misure di austerità. Certamente Kohl, da governante avveduto, si rendeva conto di questi nodi, ma la sua linea imponeva di anteporre le ragioni politiche a quelle economiche. Pareva convinto, come il generale De Gaulle, che l’intendance suivra.
A riunificazione avvenuta cominciano le amarezze. Ecco la sconfitta al voto del 1998: esattamente come Winston Churchill, sconfessato dagli elettori dopo la vittoria, Kohl deve lasciare la Cancelleria che occupava dal 1982; prende il suo posto il social-democratico Gerhard Schröder. Poi esplode lo scandalo dei fondi occulti alla CDU: il Cancelliere ha ricevuto donazioni per il partito e rifiuta di fornire dettagli sui finanziatori. La sua pupilla, una giovane dell’Est di nome Angela Merkel che ha chiamato nel governo come ministro e si è ormai assicurata una posizione influente nella CDU, prende le distanze dal suo mentore. Kohl ha già lasciato nel 1998 la presidenza del partito che occupava da un quarto di secolo, ora si ritira deluso e furente nella sua Ludwigshafen.
L’uomo che alcuni considerano il maggiore statista del Dopoguerra era molto legato al quieto carattere della sua città. Amava le tradizioni del Palatinato e soprattutto le ricette di questa terra. La sua passione per la buona tavola lo portava a un sovrappeso eccessivo, del quale si liberava trascorrendo le vacanze pasquali con la moglie Hannelore sulle rive di un lago austriaco dove seguiva una rigida dieta. Tornava a Bonn alleggerito di una dozzina di chili che recuperava rapidamente: responsabile fra gli altri piatti una micidiale specialità di cui era particolarmente ghiotto, il Saumagen, a base di interiora di suino. Comunicativo, gioviale, non privo di una bonaria goffaggine, Kohl era solito salutare gli amici con devastanti pacche sulle spalle. Nell’autunno della sua vita, funestato dal suicidio di Hannelore incapace di sopportare una rarissima allergia alla luce, lavorava all’ultima parte delle memorie coadiuvato dalla seconda moglie Maike. Probabilmente vi esprimeva il suo rammarico per l’Europa dei nostri giorni, figlia deludente del capolavoro diplomatico con cui era riuscito, sulle macerie del Muro, a creare la nuova Germania unita.