Haftar guarda alla Tripolitania

Libia – Il 4 aprile il generale libico ha annunciato con un messaggio vocale diffuso online una campagna militare per conquistare la capitale Tripoli cogliendo di sorpresa il governo di al-Serraj sostenuto dalla comunità internazionale
/ 15.04.2019
di Lucio Caracciolo

L’offensiva del generale Haftar contro Tripoli, dove è asserragliato il debole capo del cosiddetto governo libico internazionalmente riconosciuto, al-Serraj, segna un nuovo picco nell’interminabile contesa che incendia l’ex colonia italiana dal 2011. La battaglia, comunque si concluda, non risolverà la partita strategica. Quell’enorme territorio è da tempo oggetto di una guerra per bande che procede per vie carsiche, con fasi visibili e contrasti sottobanco. Protagonisti i principali attori locali – ovvero milizie e tribù – sostenuti dai rispettivi sponsor internazionali.

Oggi più che mai lo scontro si configura come il tentativo delle forze della Cirenaica che fanno riferimento ad Haftar di prendere il controllo della Tripolitania. Quasi una riunificazione della Libia, che dopo la morte di Gheddafi non esiste più. Tentativo destinato con ogni probabilità a fallire. La scacchiera libica è infatti troppo frastagliata, gli attori troppo numerosi per immaginare che una sola fazione, per quanto bene armata, possa riportare sotto il suo controllo tutte le nervature strategiche del Paese.

Con al-Serraj, o meglio con Tripoli, si sono schierate milizie e tribù dell’Ovest libico, almeno le più rilevanti. Fra queste, le truppe di Misurata, importante porto mercantile prossimo alla capitale, appaiono le più potenti, dotate anche di una minima aviazione. Sono le brigate che si sono intestate la «rivoluzione» contro il regime gheddafiano, di cui invece Haftar è stato a suo tempo un importante riferimento militare. Sia pure con un passato oscuro e con una lunga permanenza in America, durante la quale ha stretto rapporti con la Cia.

Formalmente il governo di al-Serraj è sostenuto dalla «comunità internazionale». Di fatto, la stessa Italia, che si era illusa di potere svolgere un ruolo decisivo – addirittura su mandato americano – nella improbabile risoluzione della mischia libica, e aveva scommesso tutto sulla mediazione Onu, da qualche tempo aveva intensificato i rapporti con Haftar. Giacché l’ipotesi di scartare l’attuale padrone della Cirenaica da qualsiasi «soluzione» politica è evidentemente irrealistica, visto che può contare su quasi centomila soldati. E sui rifornimenti in denaro e in armi di Arabia Saudita, Emirati Arabi Uniti, Egitto, Russia.

Il ruolo francese è particolarmente ambiguo. La diplomazia gioca ufficialmente la carta della mediazione, sempre tenendo d’occhio il Fezzan, ovvero la regione meridionale della fu Libia, porta d’ingresso all’impero francese in Africa – specie ai giacimenti di uranio del Niger. Ma l’Eliseo ha dato mandato ai servizi segreti di puntare su Haftar, il quale se n’è sentito particolarmente gratificato. Così pure una parte dell’Amministrazione e degli apparati americani ha pensato di puntare sul generale, quantomeno in funzione strumentale. Il problema è che Haftar ha preso molto sul serio i suoi obliqui sponsor occidentali. E imbaldanzito dai rifornimenti che continuano a venirgli dai russi e dalle potenze arabe del Golfo ha deciso di provare a diventare lui il successore del suo ex capo, il «colonnello» Gheddafi, «guida della rivoluzione» anticoloniale libica.

L’avventura di Haftar ha inoltre riacceso gli appetiti dell’Egitto sulla Cirenaica, o meglio sui suoi giacimenti petroliferi. Il Cairo soffre di essere l’unico Paese arabo a non disporre di riserve di greggio degne di questo nome, sicché l’allargamento via Haftar della sua sfera d’influenza nell’ex provincia della Libia orientale suscita qualche speranza di colmare tale lacuna.

Infine, da segnalare il ritorno della Cina in Libia. Dopo averne evacuato brillantemente gli ingegneri e gli operai che vi lavoravano pochi giorni dopo l’inizio della crisi del 2011, Pechino sta cercando di estendere alla Libia la sua rete marchiata «nuove vie della seta». Apparentemente un progetto economico, di fatto una sfida geopolitica a tutto tondo destinata a scalzare gradualmente gli Stati Uniti dalla vetta del mondo.

Il vuoto attrae. Se, come probabile, nessuno fra gli attori locali riuscirà a riempirlo in modo più meno definitivo nei prossimi anni, il vero match riguarderà le potenze esterne. Come abbiamo visto, non mancano. Né per rango né per ambizioni. Ciò che fa della battaglia di Tripoli un episodio, certamente rilevante ma non decisivo, in un confronto che verrà deciso altrove, nel retrobottega gestito dagli sponsor delle fazioni libiche. O non lo sarà affatto, lasciando una pericolosa e vasta zona ingovernata ai bordi del Canale di Sicilia.