Guerra del Golfo. Continua.

Crisi Usa-Iran – Quello che sta succedendo in questi giorni fra Washington e Teheran sul suolo iracheno va visto in un’ottica storica di lungo periodo, a partire dall’anno chiave del 1979 fino al 2003 con l’invasione dell’Iraq
/ 13.01.2020
di Federico Rampini

Siamo entrati nel 41esimo anno della Guerra del Golfo, quella che oppone l’Iran agli Stati Uniti, all’Arabia saudita, a Israele, con l’Iraq schiacciato in mezzo a questi contendenti e talvolta coinvolto da una parte o dall’altra. Solo in quest’ottica storica di lungo periodo – che va alle origini del moderno fondamentalismo islamico, anno chiave 1979, si snoda nella guerra Iran-Iraq degli anni Ottanta, nell’invasione del Kuwait e nell’attacco americano del 1991 per concludersi con l’invasione del 2003 – si può tentare di capire quanto accaduto dal 31 dicembre 2019 ad oggi.

Prima l’offensiva anti-americana che ha portato a rasentare una nuova «crisi dell’ambasciata», stavolta nella Green Zone diplomatica di Baghdad anziché a Teheran. Poi la poderosa reazione degli Stati Uniti che ha eliminato addirittura il numero due del regime iraniano. Infine i venti di guerra, a cui ha fatto seguito un’apparente de-escalation o attenuazione del conflitto. Sulla quale nessuno dovrebbe illudersi troppo.

«L’Iran si è piegato». La settimana di fuoco di Donald Trump si è conclusa temporaneamente mercoledì 8 gennaio con una dichiarazione trionfale del presidente americano. La pioggia di missili iraniani su basi Usa non ha fatto vittime. La rappresaglia lanciata da Teheran per reagire all’uccisione del generale Qassim Soleimani è stata un misto tra fuochi d’artificio e fuoco «amico»; quasi che l’Iran tema davvero di sfidare il Grande Satana americano.

Per gli avversari di Trump il suo discorso dell’8 gennaio alla nazione può ricordare l’infausto striscione «Mission Accomplished» che accolse George W. Bush su una portaerei, quel prematuro cantar vittoria meno di due mesi dopo l’invasione dell’Iraq nel 2003. A cui seguirono non pochi rovesci. Ma per adesso la cronaca della settimana di fuoco che ha aperto l’anno 2020 è un crescendo trumpiano, con il presidente che s’impadronisce del trofeo militare dopo alcune pause d’incertezza, confusione, perfino paura.

Gli antefatti recenti coprono l’intero 2019. Gli attacchi iraniani contro navi petroliere di diverse nazionalità, nel Golfo Persico: una sfida diretta al ruolo degli Stati Uniti come garanti della libertà di navigazione in quella parte del mondo (anche se il petrolio che vi transita non viene più importato dagli americani, ormai autosufficienti, è tuttavia vitale per alleati come Europa India e Giappone, o rivali come la Cina). La distruzione di un drone Usa da parte degli iraniani.

Il micidiale attacco, sempre ad opera di droni iraniani, che mise fuori uso importanti impianti petroliferi dell’Arabia saudita: un colpo tremendo a un alleato strategico di Washington, non tanto per il danno economico ma per l’enorme caduta di credibilità militare di Riad. Da ultimo, a fine dicembre, l’uccisione di un cittadino americano in Iraq e l’assalto-assedio all’ambasciata Usa a Baghdad, attribuiti a fazioni filo-iraniane manovrate dagli ayatollah e dal generale Soleimani in persona.

Da mesi l’Iran stava sfidando l’America, colpo su colpo ne logorava la credibilità in tutto il Medio Oriente. Questa sfida rispondeva a uno scenario di deterioramento programmato delle relazioni: fu Trump a stracciare l’accordo voluto dal suo predecessore Barack Obama, che aveva offerto la fine dell’embargo all’Iran in cambio di un congelamento del piano nucleare. Quell’accordo secondo Trump fu un grave errore. Allineandosi con le preoccupazioni di Israele e dell’Arabia saudita, i suoi due «mentori» in Medio Oriente, Trump ha optato per la linea dello scontro. Indurendo le sanzioni Trump sperava di indebolire Khamenei e i falchi iraniani; forse ha ottenuto l’effetto opposto di indebolire i moderati del regime come il presidente Rohani. L’economia iraniana si avvita in una crisi grave, la popolazione si rivolta contro il regime; quest’ultimo non esita a rispondere con una repressione sempre più sanguinosa (centinaia di morti).

La cronaca dell’ultima settimana deve enfatizzare la «sindrome del 1979». Quando una folla di filo-iraniani assalta l’ambasciata Usa di Baghdad, Trump ha l’incubo di diventare un nuovo Jimmy Carter, il presidente che subì per 444 giorni la crisi degli ostaggi detenuti nell’ambasciata di Teheran. La sera del 3 gennaio arriva la formidabile reazione americana: un blitz di droni Usa uccide il generale Soleimani, capo delle forze speciali Quds, regista occulto o palese delle tante milizie parallele che dal Libano alla Palestina, dalla Siria allo Yemen seminano il terrore da anni. L’esecuzione – che insieme a Soleimani elimina un capo degli Hezbollah e altri otto miliziani – è avvenuta vicino all’aeroporto di Baghdad, quindi sul suolo iracheno.

Nelle prime ore dopo l’annuncio, prevalgono le critiche. I democratici Usa accusano il presidente di aver agito senza consultare il Congresso. Gli alleati Nato lamentano di non essere stati informati. L’Iraq denuncia una violazione della sua sovranità. L’onda negativa si amplifica per i due giorni successivi. Nei commenti dei media prevale il catastrofismo: dalla recessione imminente alla terza guerra mondiale, ogni sorta di scenario apocalittico viene addebitato a Trump. Vacilla la stessa squadra di comando che ha coordinato le operazioni tra Casa Bianca, Pentagono e Dipartimento di Stato. Esce un’indiscrezione imbarazzante, su una lettera dei vertici militari americani che sembrano cedere alle richieste di ritiro che vengono dal Parlamento di Baghdad. La diplomazia Usa è costretta a dare un ordine di evacuazione di tutti i concittadini dall’Iraq, compreso il personale dell’ambasciata, il che appare una vittoria per l’Iran.

Poi arriva, al quinto giorno, il primo segnale d’inversione di tendenza. È una tragedia nella tragedia, avviene quando nel corso di una cerimonia funebre per Soleimani muoiono calpestati nella ressa almeno 50 iraniani. Crudele e terribile fatalità, finisce indirettamente per ricordare che in Iran molto più numerose sono le vittime della violenza locale (di Stato) che quelle degli attacchi americani. Nella notte tra il quinto e il sesto giorno, la tempesta di fuoco che parte dall’Iran contro le basi militari Usa in Iraq si rivela uno spettacolo ad uso della propaganda di Teheran.

Neanche un soldato americano o iracheno viene colpito. Non è chiaro se il flop dei missili sia voluto dal regime degli ayatollah perché non vogliono scatenare nuovi castighi americani; o se sia una semplice prova d’inefficienza. Si aggiunge il tragico mistero del Boeing ucraino caduto poco dopo il decollo da Teheran, con i sospetti che uno dei missili iraniani possa avere colpito per sbaglio il jet con passeggeri a bordo. Trump parla alla nazione, e il primo bilancio gli dà ragione: la terza guerra mondiale è rinviata. Lui ne approfitta per saldare i conti con la Nato a cui chiede un maggiore impegno anche in quell’area. Offre agli iraniani un futuro radioso, se solo rinunceranno all’espansionismo ideologico-militare. Sottolinea che mai e poi mai l’Iran avrà l’atomica, finché lui è presidente. Quest’ultima forse è la promessa più azzardata fra tutte.

Che cosa cambia nella dinamica elettorale americana? L’impatto può rafforzare Trump? Questo non significa abbracciare la vecchia dietrologia secondo cui «i presidenti americani vanno in guerra per distrarre l’opinione pubblica dai loro guai interni». Logoro stereotipo, per lo più falso, soprattutto se dà per scontato che le guerre aiutano chi le fa. Bush padre vinse la prima Guerra del Golfo contro Saddam Hussein nel 1991 e subito dopo perse le elezioni. Lyndon Johnson fu distrutto dal Vietnam. Bill Clinton bombardò il Kosovo dopo lo scandalo Lewinsky ma non aveva nessuna rielezione in ballo. (Semmai la dietrologia guerrafondaia è più vera per gli ayatollah, che hanno bisogno di tenere altissima la tensione internazionale per soffocare le rivolte interne). Sta di fatto però che l’uccisione di Suleimani apre una fase in cui l’Iran con le sue future rappresaglie può decidere se, come, quando intervenire nella campagna elettorale americana. 

In questo senso il precedente storico più interessante è quello con Carter, il presidente democratico che nel 1979 dovette affrontare la cacciata dello Scià di Persia suo alleato, la rivoluzione islamica khomeinista, l’assalto all’ambasciata Usa di Teheran e i 444 giorni di detenzione degli ostaggi americani. Ne uscì rovinato, perse l’elezione per il secondo mandato, e l’ayatollah Khomeini fece liberare gli ostaggi dopo che aveva vinto il repubblicano Ronald Reagan. Certo, la tensione con l’Iran fa passare in secondo piano l’impeachment: ma la vicenda giudiziaria (che arriva al Senato dove i repubblicani assolveranno il presidente) non stava danneggiando Trump.

Da non escludere a priori: l’ipotesi che ai falchi iraniani possa far comodo la rielezione di Trump. Come sempre, anche la sinistra potrebbe venire in soccorso a Trump. I cori di condanna per l’eliminazione di un capo terrorista suonano stonati, se l’impressione che rimane fra gli elettori americani è che l’opposizione prenda le difese dell’Iran. Passato lo shock iniziale i messaggi si sono differenziati. Ad un polo abbiamo il moderato Joe Biden, il quale in sostanza si propone come l’alternativa esperta e competente a Trump. Se guerra con l’Iran ha da esserci, meglio che alla guida del Paese ci sia qualcuno che ne capisce, dice Biden. Al polo opposto c’è il radicale Bernie Sanders per il quale la politica estera americana è imperialista, aggressiva, guerrafondaia. Non è difficile immaginare che Trump nei duelli televisivi rievocherebbe i pellegrinaggi di Sanders giovane in Unione Sovietica. Nel frattempo lui si permette il lusso di offrire de-escalation e ramoscelli d’ulivo a Teheran.