Nel prossimo novembre la signora Ursula von der Leyen, già ministro tedesco della Difesa e a lungo considerata possibile delfino della cancelliera Angela Merkel, insedierà la sua nuova Commissione europea. Unica certezza: conterà poco. Le grandi linee strategiche dell’Ue – o la loro impossibilità, e quindi i relativi contenziosi intracomunitari – sono da tempo affare dei Consigli europei. Ovvero le maratone notturne – dall’aperitivo al cappuccino dell’alba – che riuniscono i capi di Stato e di governo europei. Per i quali i commissari hanno, al meglio, funzioni esecutive di scelte stabilite in Consiglio.
Lo stato particolarmente deplorevole in cui si trovano oggi le istituzioni europee, e il loro decrescente grado di legittimazione, contribuiranno a rendere abbastanza vane le intenzioni di von der Leyen e associati. L’ex ministro, uno dei meno brillanti nella storia della Bundesrepublik – ragione in più per mandare la signora, dotata di impeccabili credenziali europeiste, a Bruxelles – ci ha aggiunto del suo con improbabili dichiarazioni ideologiche. Tra queste, la promessa di difendere lo «stile di vita europeo». Che cosa sia, nessun lo sa. Oppure pensiamo che un cipriota e un finlandese, un portoghese e un estone, un italiano e un tedesco siano accomunati da una way of life? I maligni ne traggono due conclusioni: aria fritta, o un tentativo goffo di vellicare l’elettorato (ultra)conservatore tedesco e di altri paesi europei, spaventato dalla «invasione» dei migranti, spesso radunato in battaglie di civiltà come la prevalenza dei campanili sui minareti.
Se vogliamo capire le attuali derive europee dobbiamo guardare meno a Bruxelles, al Parlamento e alla Commissione, molto più ai suoi maggiori paesi. In particolare quello da cui von der Leyen origina, che poi è la maggiore economia continentale: la Repubblica Federale Germania. Perché dal suo futuro dipende molto della nostra sicurezza, prosperità e benessere. Tre segnali negativi nei tre principali scenari – politica, economia, cultura – provengono in questi mesi dalla Germania.Primo. La Merkeldämmerung assume colori più tristi di giorno in giorno, sia per le palesi difficoltà fisiche della cancelliera, costretta a stare quasi sempre seduta, sia soprattutto per la fibrillazione del suo governo con la più che declinante SPD e la crisi dell’intero sistema partitico tedesco.
Per la prima volta da Weimar la Germania ha un importante partito nazionalista, con frequenti sbavature xenofobe, l’AfD (Alternative für Deutschland), presente in tutti i Länder e particolarmente radicato a Est, dove ottiene un quarto dei voti alle elezioni regionali. Insieme alla Linke, erede dei comunisti della DDR, compone potenzialmente quasi la metà dell’elettorato nella ex Germania comunista, un quinto nella BRD. Formare una coalizione fra gli altri partiti sarà sempre più duro, visto che la SPD forse sceglierà l’opposizione. Non resterebbe che una debole intesa CDU-CSU-Verdi, più forse liberali. Oppure l’ammissione di uno dei due partiti estremi, oggi impensabile, nel governo di Berlino. Secondo.
La Germania è sull’orlo della recessione. Che non si profila solo congiunturale. Sono le basi del modello economico tedesco, a partire dall’austerità fino alla depressione dei consumi interni a favore dell’export, a non reggere più nel contesto delle guerre commerciali e del Brexit. Un paese di risparmiatori vede vacillare alcune delle sue banche, a cominciare dal colosso Deutsche Bank, a un passo dal finire come Lehman Brothers. Si parla della necessità di ridurre le tasse e aumentare gli investimenti infrastrutturali, ma finora nulla di concreto. Terzo.
L’identità culturale tedesca, e di altri paesi europei, è sfidata dall’incertezza geopolitica e dalla percezione, in parte corrispondente alla realtà, di una crescente presenza straniera, non assimilabile alla propria Leitkultur. Questa è la sfida più importante. Troppe volte nel passato non lontanissimo i primordiali e spesso feroci sentimenti di origine razziale sul rapporto con gli stranieri provenienti da mondi ritenuti «altri» ha dato origine a conflitti sociali, se non a guerre in Europa. Una politica comune di approccio al fenomeno migratorio non è possibile, stanti le differenze fra paesi quasi monoetnici e paesi multietnici. Non resta che azzardare intese bilaterali o comunque limitate, ad hoc, per gestire almeno le emergenze. Ritoccare i trattati è impresa che nel clima attuale appare impossibile, richiedendo l’unanimità dei membri. Facciamo i migliori auguri alla Commissione von der Leyen.
Ma attrezziamoci ad affrontare le sfide monumentali che quel selezionato gruppo di tecnocrati o politici sarebbe formalmente incaricato di gestire. In attesa di vedere, un giorno che temiamo lontano, una Ue meno incoerente all’idea di sé che propaganda.