Le trattative per il governo tedesco sono durate quasi cinque mesi e ora che il patto è fatto, con un documento di centosettantasette pagine a sigillo, c’è una gran fretta: correndo, si cerca di non farsi ostacolare troppo dai guastafeste. Angela Merkel, cancelliera al suo quarto mandato, vuole guidare un esecutivo con i socialdemocratici, partner di minoranza con cui ha una certa dimestichezza: è la terza volta che, dal 2005 a oggi, lavora con loro. I socialdemocratici, dopo aver cambiato idea un po’ di volte, hanno infine lasciato che prevalesse il senso di responsabilità nazionale – c’è lo zampino del presidente della Repubblica, Frank-Walter Steinmeier – e si sono messi a negoziare con la Merkel, arrivando infine a un accordo che presenta parecchi vantaggi: il Ministero delle finanze, soprattutto, che passerebbe al designato Olaf Scholz, attuale sindaco di Amburgo. Ma gli scontenti sono tanti, bisogna prendersi la briga di ascoltarli, e aspettare, mentre tutta l’Europa resta ferma a guardare: le tanto chiacchierate riforme non si possono nemmeno discutere se a Berlino non c’è un governo.
I problemi più gravi ed evidenti esistono dentro la Spd, il partito che ha deciso di interrogare il 4 marzo i propri membri sulla bontà dell’accordo sulla grande coalizione. Alle elezioni del 24 settembre dello scorso anno, la Spd ha ottenuto un risultato misero, il 20,5 per cento, e ha deciso di provare a ricostruirsi stando all’opposizione. Era stato il suo leader, Martin Schulz, a esporsi più di tutti su questa decisione: dopo tanti anni di coabitazione con i cristianodemocratici della Cdu, la Spd aveva bisogno di ridefinire la propria identità, stando lontano dal governo e provando a elaborare un’alternativa valida al centrismo della Merkel.
Su cosa l’Spd potesse diventare, c’erano – ci sono – molte fratture: i moderati spingevano per una sinistra in stile Emmanuel Macron, il presidente francese, e i radicali invece guardavano più a nord e più a ovest, verso il leader del Labour Jeremy Corbyn e verso lo stoico leader democratico americano Bernie Sanders. Ma non c’è stato tempo per confrontarsi perché nel frattempo sono accadute due cose: alcuni nell’Spd, come l’ex cancelliere Gerhard Schröder, dicevano che forse la decisione di andare all’opposizione poteva essere rivista; le trattative di governo della Merkel con Liberali e Verdi – la celebre coalizione Giamaica – collassavano. È così che Schulz ha dovuto piegarsi a pressioni e a spirito di responsabilità ed è tornato a dialogare con la Merkel: quando ha annunciato il voltafaccia davanti al pubblico della Spd, ha dovuto ingoiare parecchi fischi.
E di lì in poi ha portato da solo il fardello del processo di creazione di una grande coalizione, con un’aggravante: quel «mai più con la Merkel» pesante come un macigno. Troppo per un leader che non aveva nemmeno ottenuto un consenso elettorale dignitoso: dopo aver portato a termine il negoziato con la cancelliera, dopo essere apparso con lei dicendo che le trattative erano state faticose ma anche gentili, dopo aver ottenuto, nel totoministeri, il posto agli Esteri, Schulz ha rinunciato a tutto, a nomina e a leadership della Spd. Cambiare idea ha un prezzo alto.
L’accordo di grande coalizione intanto deve essere valutato dai membri del partito: hanno già iniziato a esprimere il loro parere, poi il partito raccoglierà i voti e il 4 marzo renderà pubblico il risultato. Se la Spd dovesse dare il via libera, il governo si formerà in poco tempo, visto che si potrà correre senza guastafeste attorno. Se la Spd al contrario dovesse bocciare il documento, la Merkel dovrà decidere se formare un governo di minoranza o andare di nuovo a elezioni: in entrambi i casi, l’incertezza sarebbe alta.
A guidare la cordata contro la grande coalizione dentro alla Spd è il leader dei giovani del partito, Kevin Kuehnert, che è diventato in poche settimane una star internazionale, intervistato su molti giornali occidentali. Ispirandosi a Corbyn e a Sander, Kuehnert dice che la socialdemocrazia tedesca deve smetterla di rincorrere al centro i conservatori: lui, e molti con lui, sono stufi di non saper dire in che cosa si differenziano davvero la Spd e la Cdu. Kuehnert aveva già cercato di boicottare i colloqui per la formazione di governo, in modo da uccidere l’ipotesi di grande coalizione in culla, ma non aveva trovato grande seguito: nonostante i tanti e rumorosi borbottii, un governo stabile di larghe intese è risultato comunque preferibile ai più.
Ma il giovane non demorde e conta di festeggiare la mattina del 4 marzo: molti fanno notare che il tesserato medio della Spd, oggi, non è molto giovane e non è molto radicale, e che anche se non è molto contento dell’operato e dell’andamento (elettorale soprattutto) del partito preferisce comunque dare un’altra chance di stabilità al proprio Paese, e anche all’Europa. Come ripetono molti leader europei, la «finestra d’opportunità» per le riforme europee – dall’integrazione alla riforma del mercato interno – non è aperta a tempo indefinito. In questo momento si può anche sfruttare una convergenza economica positiva, che dà un margine di manovra più ampio ai tanti cantieri da aprire, ma pure questa simbiosi di crescita non durerà per sempre. Non c’è molto tempo, e infatti anche dentro la stessa Germania ci sono movimenti che superano l’impasse politica: sono state introdotte le 28 ore di lavoro settimanale (a scelta volontaria), una gran vittoria dei sindacati che nel Paese del surplus economico approfittano del benessere per portare a casa risultati.
Questa svolta, ancora circoscritta ma simbolica, ha riaperto il dibattito sulle ore di lavoro anche in altri paesi, soprattutto nella vicina Francia che più scalpita in attesa di un interlocutore a Berlino (c’è da aspettarsi però che, se mai il presidente Macron dovesse mettere mano alle ore di lavoro, sarebbe per aumentarle). Le attese sono alte, anche di un riassestamento delle relazioni interne all’Unione europea, in particolare se alle Finanze andrà davvero un moderato socialdemocratico come Scholz che, sulla carta, potrebbe smussare gli angoli d’austerità imposti da Berlino da molto tempo. È un’occasione che non si può perdere.
Anche la Merkel però subisce pressioni all’interno del suo partito: la cancelliera ha spostato i cristianodemocratici al centro, e l’ala conservatrice, sapendo che ormai questo mandato è l’ultimo, vuole riprendere in mano la Cdu. E come per la Spd sono i giovani a farsi sentire di più: vogliamo «facce nuove», vogliamo una linea di successione, ripetono. Anche in questo caso i giovani sono minoranza, ma la Merkel ha detto di voler accogliere la richiesta e nel nuovo governo cercherà di dare spazio a i volti più freschi. Ma intanto ha nominato a capo della Cdu la governatrice del Saarland, Annegret Kramp-Karrenbauer, detta Akk, che non si può definire giovane e che soprattutto è soprannominata «la miniMerkel», cioè sarebbe il simbolo di una successione – dalla leadership del partito cominciò anche l’ascesa della Merkel – in continuità con il merkelismo.
L’esatto opposto di quel che chiedono molti nella Cdu, insomma. Ma la Merkel sottolinea che con Akk c’è un’intesa perfetta, che Akk ha esperienza di governo, è una donna pratica e determinata, e mentre si mostra sorridente, per quanto affaticata, sembra che la cancelliera con gli occhi ripeta a tutti, ai suoi colleghi di partito, ai socialdemocratici, agli europei che hanno sancito la sua fine così tante volte che non se lo ricordano più: fate sempre attenzione a quel che desiderate.