Governo e militari allo sbando

Dopo i ministri silurati o dimissionari anche l’esercito perde pezzi mentre il Brasile è in ginocchio a causa della pandemia e della crisi economica. Bolsonaro fa carte false per la riconferma del mandato ma Lula è risorto
/ 05.04.2021
di Angela Nocioni

I vertici militari brasiliani si sono dimessi in blocco martedì scorso per protestare contro le crescenti pressioni del presidente Jair Bolsonaro che vuole coinvolgerli a tutti i costi nella sua personale battaglia politica per la rielezione. Questa rinuncia collettiva, sommata alla destituzione del ministro della Difesa e alle dimissioni di quello degli Esteri, ha aperto una crisi ulteriore, tutta interna al potere militare, proprio nel momento in cui il Governo appare allo sbando, spianato da un improvviso rimpasto che ha fatto fuori altri 6 ministri la settimana scorsa mentre il Paese è in piena pandemia con 5 mila morti al giorno. Cifra calcolata al ribasso considerando che gran parte dei decessi a causa della Covid-19 non viene conteggiata come tale.

Le forze militari brasiliane sono fortemente politicizzate da tempo, in loro è sedimentata l’eredità di cultura autoritaria e antidemocratica della dittatura militare terminata poco più di trent’anni fa. Molte cose sono rimaste intatte da allora, tra queste anche la formazione dei militari. Ciò ha contribuito a far sì che nell’esercito brasiliano la posizione contraria all’ideologia di sinistra sia prevalente. Con un presidente della Repubblica di ultra destra che non perde occasione per fare allusioni alla necessità di un colpo di mano e per rimpiangere i tempi del Governo militare, la parte più estrema di questa destra sa di avere briglia sciolta e ne approfitta.

Nell’ambiente democratico che pure esiste nel pianeta militare tutti i giorni vengono denunciati timori non tanto di un colpo di stato classico ma di uno scivolamento costante verso l’abitudine a calpestare le norme a tutela della democrazia dentro e fuori l’esercito. È per esempio costume abituale ormai affermare anche in occasioni pubbliche che il primo aprile del 1964 non ci fu un golpe militare ma la necessaria presa di responsabilità da parte dei militari per mettere ordine nel caos del Paese.

Tutto ciò avviene mentre Bolsonaro minaccia spesso di voler applicare l’articolo 142 della Costituzione che, secondo un’interpretazione contestata da molti giuristi, consentirebbe l’intervento delle forze armate contro i poteri dello Stato e mentre lo stesso presidente invita a organizzare manifestazioni contro il Tribunale supremo, massima autorità giudiziaria brasiliana, quando da lì arrivano decisioni a lui sgradite. In Brasile si vota nell’ottobre del 2022 e la campagna elettorale è stata aperta, di fatto, dalla doppietta di decisioni giudiziarie con cui il Tribunale supremo ha nelle scorse settimane annullato i processi contro l’ex presidente Lula (Luiz Inácio) da Silva, rilevando la non imparzialità del giudice Sergio Moro che lo arrestò togliendolo di mezzo dalla corsa per le presidenziali del 2018 nelle quali risultava favoritissimo. Quell’arresto spianò la strada verso la vittoria all’attuale presidente Bolsonaro che premiò il giudice Moro, nominandolo ministro della Giustizia.

Le due decisioni del Tribunale supremo hanno stravolto le prospettive politiche del Brasile rimettendo in campo l’ex presidente Lula da Silva, leader dell’intera sinistra latinoamericana e uscito dal Governo nel 2010 con un consenso popolare che superava l’80 per cento. È questo dato che preoccupa Bolsonaro. E sono quelle decisioni giudiziarie ad aver determinato il terremoto politico di questi giorni. Il presidente, che nel frattempo ha litigato furiosamente con l’ex giudice Sergio Moro dimessosi dal Ministero di giustizia in polemica con lui e pronto a candidarsi a sua volta per le elezioni del 2022, era infatti pronto a cominciare la battaglia per la riconferma del mandato giocandosela contro Moro. Immaginava un duello tutto a destra: Bolsonaro contro Moro. Il presidente pistolero contro il giudice sceriffo.

Il fatto che ora Lula sia candidabile e Moro con ogni probabilità no, rovina a Bolsonaro tutti i piani già confezionati per una riconferma del mandato. Li rovina a lui e, soprattutto, al grande blocco di potere conservatore che lo sostiene, fatto di lobby delle armi, lobby del latifondo e potere evangelico (gli evangelici sono un gigantesco potere trasversale in Brasile e contano su tantissimi numeri in Parlamento).
Occhio, però. Non entrambe le sentenze pro Lula del Tribunale supremo sono state fatte in favore dell’ex presidente di sinistra. Al contrario. Al di là delle apparenze, la prima sentenza, quella che ha annullato il processo di Moro contro Lula, è stata fatta dal giudice monocratico Edson Fachin per salvare Moro e rendergli possibile la candidatura alla presidenza della Repubblica.

C’è infatti una grande battaglia politica interna al potere giudiziario e una parte dei giudici voleva favorire Sergio Moro. L’inziativa del giudice Gilmar Mendes, vecchio nemico di Lula ma determinato a punire l’uso politico della magistratura compiuto da Moro, ha rovinato i piani del salvataggio in extremis di quest’ultimo e ha avuto come effetto finale la resurrezione di Lula che ora, potendo correre alle prossime elezioni presidenziali, con la sua sola presenza in campagna elettorale stravolge tutta la politica, anche quella delle nomine governative.

Tra i nuovi capi appena nominati spicca quello dell’esercito. Si tratta del generale Nogueira de Oliveira, mai stato tra i favoriti di Bolsonaro. Finora il generale era il responsabile della salute nell’esercito e, in totale contrasto con la negazione della pericolosità del virus proclamata da Bolsonaro, aveva organizzato una strategia di contenimento dell’epidemia. La strategia del generale ha funzionato, la percentuale dei soldati ammalati è molto più bassa rispetto a quella nazionale (0,3% contro il 2,5% tra la popolazione civile) e Bolsonaro, vistosi con l’acqua alla gola, ha fatto buon viso a cattivo gioco e l’ha chiamato al Governo nel tentativo di frenare il diffondersi della pandemia e di riposizionarsi in campagna elettorale.