Il Natale di Boris è di quelli da trascorrere con la soddisfazione delle cose fatte: dal caos assoluto che ha regnato nel Paese per tre anni e mezzo è riuscito a plasmare un’idea di futuro che, per quanto volutamente ancora avvolta dalla nebbiolina degli slogan elettorali, ha una sua vertiginosa coerenza. E ha conquistato la maggioranza di un Parlamento anchilosato da anni, lasciando immaginare un futuro di decisioni spedite e di influenza profonda su un Paese che ha deciso di affidare a lui la soluzione della propria profonda crisi di identità. Per frustrazione, anche. L’offerta del Labour di Jeremy Corbyn è stata respinta con sdegno proprio da quel Nord ex operaio e deluso al quale il leader socialista voleva dare risposte, permettendo ai Tories di sfondare il «muro rosso» che da sempre proteggeva quelle zone. La posizione ambigua del Labour sulla Brexit non ha pagato: non ha convinto i Brexiteers più deboli a ripensarci e non ha persuaso i Remainers più mercatisti a superare le proprie perplessità. E ora è già partita la lotta per la successione, inevitabilmente, con annessa altra crisi di identità, come per tutti i partiti di sinistra del mondo, al momento.
Quello che ha convinto, e molto, è stata invece la linea di Johnson: «Portiamo a termine la Brexit», «Get Brexit Done», martellante come una canzoncina di Natale, ripetuta in tutti i contesti e con mille travestimenti addosso, da lattaio, da panettiere e addirittura alla guida di una ruspa, rassicurante solo nel suo promettere l’uscita dalle secche dell’approvazione dell’accordo per l’uscita dalla Ue. Con i suoi 365 deputati, questo passaggio è dato per scontato ed è il primo regalo che Johnson vuole mettere sotto l’albero prima delle feste, per poi concentrarsi sugli altri appuntamenti che lo aspettano, a partire da quello cruciale del dicembre del 2020, quando ha promesso che finirà il periodo di transizione in cui tutte le regole europee continueranno a essere applicate e la libera circolazione dei cittadini continuerà a valere. L’obiettivo, a quel punto, si fa molto ambizioso, quasi impossibile: stringere un accordo commerciale con l’Unione europea così ampio da essere un accordo di libero scambio. E per continuare a promettere certezze, Boris ha deciso di rendere illegale per il parlamento approvare una eventuale proroga del periodo di transizione. Riaccendendo inevitabile lo spettro del no deal, ossia dell’uscita senza accordo che danneggerebbe innanzi tutto il Regno Unito.
Ma festoso e natalizio, Boris ha deciso di mettere altri regali sotto l’albero dei britannici, anzi di farlo mettere da una Elisabetta assai svogliata, senza corona né pompa magna, nel corso del secondo Queen’s Speech nel giro di poco più di due mesi. Si tratta di nuovi finanziamenti per il servizio sanitario nazionale, quell’NHS su cui il Labour è riuscito, con un certo successo, a spostare l’attenzione durante la campagna elettorale. Per l’esattezza, sono 33,9 miliardi di sterline all’anno entro il 2023/24, con un impegno sottoscritto sotto forma di legge, nella speranza di far dimenticare l’unico disastro vero della campagna elettorale, ossia la foto del bambino di quattro anni lasciato a dormire per terra in una corsia di ospedale con un sospetto di polmonite ignorata in maniera stizzita e priva di grazia da un Johnson apparso drammaticamente carente in compassione.
Per il resto i regali, annunciati da una regina vestita di verde acquamarina e impassibile come al solito, sono un inasprimento delle pene per il terrorismo e degli aiuti per le aree depresse, in modo che «tutte le zone del Paese possano prosperare».
Boris vuole strapiacere, governando su un Paese che per la prima volta, quando si siederà a tavola per Natale, forse non si accanirà più a parlare di Brexit, tema che per anni ha portato a risse e liti profonde in famiglia, tanto da essere stato bandito già da anni dalla lista degli argomenti accettabili per chiunque voglia trascorrere le feste in pace e armonia. Spinto dai suoi consiglieri molto molto determinati – Dominic Cummings è la mente, il capo della campagna Isaac Levido è il braccio, la compagna Carrie Symmonds la persona che ha saputo rendere un po’ meno irritante l’immagine pubblica di Johnson – il neopremier vuole imprimere fin da subito la sua idea di Paese. E non si esclude che in questo finisca con il realizzare una Brexit meno tossica di quella voluta dai radicali eurofobi alla Jacob Rees-Mogg, che lo ha definito «una benedizione» e che rischia di essere marginalizzato nella prossima squadra di governo, dopo il rimpasto di febbraio prossimo.
Quando si spegneranno le lucine di Natale, Boris vorrà cambiare un po’ tutto: l’assetto istituzionale, con una commissione per Democrazia, Costituzione e Diritti incaricata di pensare a delle riforme; la Bbc, decriminalizzando il mancato pagamento del canone da 154 sterline all’anno e magari abolendolo proprio, in modo da andare incontro alle richieste delle emittenti private come Sky; l’immigrazione, con regole draconiane per i nuovi arrivi e la necessità di compilare un formulario online prima di arrivare anche per i turisti. Per gli immigrati ci saranno tre tipi di visti, sul modello di quanto avviene in Australia: quelli per i grandi talenti, che saranno autorizzati a rimanere quanto vorranno, così come i lavoratori qualificati, che però dovranno essere chiamati da un datore di lavoro, e quelli temporanei e precari per i lavoratori non qualificati, che saranno chiamati solo in base ai bisogni dei vari settori dell’economia.
Sembra un piano perfetto, quello del biondo Boris a braccetto con la sua bionda Carrie, vestita come una ragazza normale. Senza nessuna opposizione in grado di mettersi di traverso, tranne quella della scozzese Nicola Sturgeon, vincitrice indiscussa a nord del Vallo e già decisa a ottenere il suo referendum sull’indipendenza. Questi regali così ben incartati potrebbero essere la chiave per la stabilità e il progresso o, non si può escludere, segnare l’inizio di qualcosa di meno rassicurante, un po’ spaventoso e spettrale come tutte le storie di Natale.