Il concetto di «posto fisso» − inteso comunemente quale «occupazione a tempo pieno» e soprattutto «indeterminato» − ha sempre costituito un’aspirazione trasversale e, in special modo, in quei Paesi caratterizzantisi per minore propensione alla mobilità lavorativa. Non c’è dubbio che, da un punto di vista sociale e familiare, esso sia persino stato «mitizzato» ed identificato quale vero e proprio «traguardo». Al progredire di tempo e richiesta di flessibilità lavorativa (così come oggigiorno proposta, cioè costituita da precarietà ed iper-mobilismo) il «posto fisso» è assurto in paesi non lontane a mantra da raggiungere sempre ed in ogni caso. Sin da subito, per evitare fraintendimenti è opportuno che si sottolinei l’immutata importanza di stabilità sia nella vita lavorativa sia familiare − spesso conditio sine qua non per decisioni individuali a lungo termine oltre che l’arricchimento nelle sue forme (materiali e non) più svariate.
Disporre di un grado di occupazione che fornisca tali certezze, può sicuramente essere di ausilio per sentirsi «sicuri» nel proprio percorso di avanzamento personale. Nel contempo, ogni analisi riduzionistica del problema (che talvolta si è operata nelle società europee maggiormente colpite dalla recente crisi occupazionale) non aiuta: per quanto la realtà economica ci abbia tristemente insegnato negli ultimi anni fatti di statistiche con segno negativo, è certamente poco ambizioso immaginare nel 2017 che la società sia prioritariamente interessata alla durata del contratto e al grado di impiego. L’individuo, infatti, rimane alla ricerca di quella «soddisfazione lavorativa», che dipende a doppio filo dall’ambiente in cui ci si estrinseca per buona parte della propria vita. Ogni contratto rinnovabile in contesti favorevoli di lavoro non dovrebbe essere percepito quale meno «sicuro» (o, persino, quale countdown del tempo che scorre) di un altro senza scadenze temporali connessevi, ma in ambienti meno stimolanti (o, persino, di contrasto). Nel contempo, l’indeterminatezza della durata contrattuale non deve essere intesa dal datore di lavoro − sia esso pubblico sia privato − quale vincolo indissolubile, e dal lavoratore stesso alla stregua di diritto acquisito (e, quindi, garantito a tutti i costi).
Il perseguimento del «posto fisso» dovrebbe forse orientarsi in un senso più attuale, in cui soddisfazione personale e conciliabilità di tempo libero e lavoro (work-life balance) siano la «stella polare». Che ci sia molto da fare in tal ambito di rinnovamento di mentalità è testimoniato anche dalle rilevazioni statistiche, che − sebbene si siano certo evolute in termini di voci «alternative» − possono ancora essere lette in chiave di contrapposizione fra lavoro full-time e part-time. In altri termini, le osservazioni sul lavoro a tempo parziale (laddove frutto di scelta consapevole e non di impossibilità a trovare impieghi a tempo pieno, alias «sotto-occupazione») devono essere necessariamente contestualizzate. Nemmeno la durata della permanenza presso lo stesso datore di lavoro deve essere, perciò, sinonimo di scarsa flessibilità del mercato del lavoro locale in quanto potrebbe essere interpretata «positivamente», cioè quale prova del forte legame nei confronti del proprio datore di lavoro. Alla luce di quanto sopra, è da privilegiarsi il perseguimento del «posto fisso» o di una flessibilità maggiore?
Ancora una volta, non ci può essere una risposta aut-aut, ma solo et-et in base a contesto, esigenze ed ambiente dei lavoratori medesimi. Probabile è, però, che ci si debba «affrancare» da tutti quei costrutti mentali che ancora troppo spesso orientano parte della società alla difesa di totem ormai solo parzialmente giusti e non necessariamente correlati − come risulta evidente − a migliore soddisfazione, qualità lavorativa e benessere individuale oltre che familiare. Il contrasto sociale deve focalizzarsi, piuttosto, − senza muoversi dal «posto fisso» alla flessibilizzazione estrema − nei confronti di disoccupazione (o sotto-occupazione) oltre che precarietà lavorativa per mera ricerca del profitto. Il taglio della protezione lavorativa (perlopiù, su una sola parte dell’economia) verificatosi negli ultimi anni nei principali Paesi del mondo, certamente, non agevola la pax sociale. Per avere successo il cambiamento deve avanzare su una strada bottom-up («dal basso verso l’alto») anziché top-down («dall’alto verso il basso»), che fornisca al legislatore di turno dal più profondo della società indicazioni precise di operare in tal senso. Perché soddisfazione reciproca − sia del lavoratore sia del datore di lavoro − è l’unica formula di successo anche in un’economia post-industriale.