Per quanto gli eventi in Ucraina siano tragici e importantissimi, più ci si allontana dall’Europa più lo scenario si arricchisce di elementi diversi, la prospettiva cambia, e il conflitto per quanto grave assume una dimensione locale. Questo contribuisce anche a spiegare l’atteggiamento «distaccato» di vaste parti del mondo che non aderiscono alle sanzioni: America latina, Africa, paesi arabi, India e gran parte dell’Asia oltre ovviamente alla Cina.
L’economia americana scoppia di salute. Il dato più importante per misurare il benessere è l’occupazione e questa continua a crescere. A marzo sono stati creati 431’000 nuovi posti di lavoro, con questo il tasso di disoccupazione è sceso al 3,6% cioè vicino al pieno impiego. Dei 22 milioni di posti che furono momentaneamente distrutti nella prima fase di pandemia e lockdown, ne sono stati ormai recuperati più del 90%. Continuano a crescere i salari, e più degli altri quelli dei lavoratori manuali nelle fasce meno qualificate. Tutto questo sarebbe meraviglioso ma c’è un rovescio della medaglia: l’economia è perfino surriscaldata, l’inflazione non accenna a placarsi, l’ultimo dato è +8% per i prezzi al consumo. Di conseguenza la Federal reserve sarà costretta a rincarare il costo del denaro più brutalmente di quanto ci si aspettava. Nelle famiglie americane in questo periodo si parla più dell’inflazione che della guerra in Ucraina. E quando arriveranno i prossimi rialzi dei tassi si parlerà dei mutui per la casa che diventano sempre più cari, dei rimborsi sugli acquisti rateali o sui prestiti studenteschi che salgono.
Joe Biden ha tentato di impostare il problema del carovita in termini politici accusando le compagnie petrolifere e gasifere di speculare, ma non sembra aver convinto. L’atmosfera di (cupo) revival degli anni Settanta ci ricorda che allora furono tentati degli esperimenti di controllo politico dei prezzi, ma fallirono. Lo scenario per l’economia americana può passare in fretta da una crescita surriscaldata a una recessione. Due le spiegazioni. Da un lato la politica monetaria: poiché la banca centrale ha tardato a riconoscere la minaccia dell’inflazione, ora è costretta a rincorrerla con una stretta sui tassi più severa. D’altro lato la politica di bilancio. Ci rendiamo conto adesso che la crescita Usa fu drogata dall’enorme quantità di spesa pubblica generata per compensare famiglie e imprese durante la pandemia (5000 miliardi di dollari). Ora che gli aiuti speciali sono finiti, l’economia può assomigliare a un tossicodipendente in crisi d’astinenza. A questo si aggiunge il fatto che l’inflazione si sta già rimangiando buona parte se non tutti gli aumenti salariali. Negli ultimi tre mesi il reddito da lavoro è aumentato del 10% annuo in termini nominali ma è diminuito dell’1,2% se si misura al netto dell’inflazione, cioè in potere d’acquisto reale. La situazione è un po’ migliore per le fasce di manodopera più bassa, dove la scarsità di immigrati ha determinato aumenti salariali maggiori, però c’è un senso di precarietà quando l’inflazione galoppa e può cancellare i benefici dalle buste paga.
Se l’America cresce troppo, con la conseguenza che l’inflazione fa paura, la Cina ha il problema opposto. La crescita cinese stava già rallentando, frenata dallo shock energetico. Ora un nuovo shock è il lockdown che colpisce Shanghai e una trentina di altre città cinesi. Potrebbe essere l’evento più negativo per l’economia mondiale in tutto il 2022, perfino più della guerra in Ucraina per i suoi riflessi sulla crescita globale. Shanghai è la seconda maggiore metropoli cinese, con 25 milioni di abitanti, è anche la più cosmopolita e dedita al business. Per frenare il contagio Xi Jinping non transige, resta incollato alla sua politica «zero Covid» e quindi applica a Shanghai lo stesso implacabile rigore che fu usato per spegnere altri focolai. Stavolta però i segnali di malumore della popolazione sembrano più forti: Shanghai non si lascia paralizzare senza protestare. Il ceto medioalto di questa metropoli potrebbe sfidare la durezza del regime e mettere a nudo l’assurdità di questi lockdown rigidi. Poi ci sono le ricadute internazionali perché molte fabbriche occidentali basate a Shanghai e dintorni sono state chiuse, e anche l’attività del porto (uno dei più grandi del mondo) ne risente. Presto sentiremo gli effetti in America e in Europa di nuove penurie di beni provocate da questo rigurgito di pandemia in Cina.
Xi Jinping ha potuto applicare per due anni la politica anti-contagio più restrittiva del mondo perché ha mobilitato una gigantesca macchina di controllo sociale: comitati di quartiere, militanti e funzionari del partito comunista. Dove questa macchina non esiste, come a Hong Kong, il caos è stato immediato. Però anche l’efficienza cinese nasconde dei problemi enormi. Xi non ha avuto altra scelta se non quella di applicare lockdown rigidissimi e quarantene spietate, perché il suo sistema sanitario è ancora sottosviluppato. La Cina ha solo 4,4 posti-letto in reparti d’emergenza (attrezzati per cure salva-vita, con apparecchi respiratori) ogni centomila abitanti, contro 11 in Corea del Sud e 26 negli Stati Uniti. La sanità non è stata nelle priorità del regime: la spesa pubblica a lei destinata vale il 3% del Pil cinese contro una media dell’8% nei paesi occidentali sviluppati. Infine Xi paga l’autarchia dei vaccini: quelli made in China sono meno efficaci di quelli americani (Pfizer, Moderna). La trappola del Covid sta diventando un test su cui misurare il diverso livello di efficienza dei regimi autoritari rispetto alle democrazie, e nel lungo periodo aumentano le probabilità che il sistema cinese ne esca perdente.
Se Xi Jinping finora non vuole discostarsi dalla politica «zero Covid» (o forse non può, per i limiti del suo sistema sanitario), c’è un altro fronte su cui il presidente cinese sta facendo concessioni. È la lotta alle diseguaglianze. «Prosperità condivisa» era lo slogan usato da Xi per introdurre un fisco più progressivo e per ridimensionare i miliardari. La Cina ha conservato una tassazione tipica da paese povero, la sua imposta sul reddito delle persone fisiche dà un gettito che vale solo l’1,2% del Pil contro il 10% negli Stati Uniti. Gli oneri sociali per finanziare la previdenza valgono il 6,5% del Pil contro il 9% nella media dei paesi ricchi. Non ha un’imposta che colpisce il patrimonio. Ma i piani di Xi per tassare di più i ricchi ora vengono rinviati. Si teme che in una fase di rallentamento della crescita possano contribuire a deprimere consumi e investimenti. La «prosperità condivisa» dovrà aspettare.
Interessante parallelo con gli Stati Uniti. Ricordate la «global minimum tax»? Biden, e la sua ministra del Tesoro Janet Yellen, lavorarono per raggiungere un accordo internazionale l’anno scorso. Però è a casa loro che l’applicazione della tassa minima è nello stallo: langue al Congresso da mesi.