Gli ultimi giri di pista di Alain Berset

Il politico romando conclude con questa legislatura i dodici anni di maratona in Governo. Le ragioni del ritiro
/ 26.06.2023
di Roberto Porta

Come una maratona. Mercoledì scorso, annunciando le sue dimissioni dopo dodici anni in Consiglio federale, Alain Berset ha paragonato la sua presenza in governo a quei 42 chilometri di corsa ereditati dall’Antica Grecia. «Adesso è come se mi mancassero soltanto due chilometri, poi sarò arrivato al mio traguardo», ha affermato il ministro socialista che rimarrà in carica fino al termine di questo 2023 e che negli anni della gioventù era tra i migliori talenti dell’atletica leggera romanda, con un titolo regionale nella disciplina degli 800 metri. Due giri di pista, non certo una maratona, ma pur sempre una gara ostica e insidiosa. Gli 800 metri richiedono velocità ma anche resistenza, senso tattico e pure una buona dose di furbizia. Qualità che possono venire buone anche in politica e forse ancora di più in Consiglio federale. Del resto lo aveva detto nel 2017 lo stesso Berset in un’intervista al quotidiano vodese «Le Matin»: «La competizione è un’eccellente scuola di vita», disse allora il ministro. «Ti insegna a fissare un obiettivo e a fare di tutto per raggiungerlo anche se il cammino può essere molto lungo. E per di più sei da solo in pista, devi saper gestire anche questo». Chissà quante volte l’ormai quasi ex ministro dell’interno avrà paragonato le giornate in Governo alle sue fatiche di atleta? Con la campana che suona prima dell’ultimo giro di pista.

Il ciclo si è chiuso

Per Berset, quella campana, quel segnale che gli ha fatto dire «questo è il momento buono per smettere» è arrivato dalla votazione popolare sulla Legge Covid dello scorso 18 giugno, come ha affermato egli stesso annunciando le dimissioni. Quel terzo «sì» delle urne alle regole anti-pandemia gli ha fatto capire che «il ciclo si è chiuso», anche se i cantieri aperti sono ancora parecchi e gravosi. Fin qui l’ufficialità e le parole scelte da Berset per annunciare davanti al Paese la sua uscita di scena a soli 51 anni, dopo tre legislature e due mandati presidenziali. E dopo essere stato la mente e il volto del Governo negli anni bui e tormentati della pandemia. Un periodo estremamente intenso e complesso, come ha ricordato più volte lo stesso ministro, che in quegli anni ha dovuto confrontarsi anche con insulti e minacce, rivolte a lui e pure ai suoi famigliari a tal punto da dover richiedere la protezione della polizia.

Nel decidere di non più ricandidarsi per un’ulteriore legislatura c’è dunque anche questa fatica da mettere in conto, nella consapevolezza «d’avoir fait ma part», per il bene del Paese, come lui stesso ha scritto nella lettera di dimissioni. E come molti altri hanno ribadito in questi giorni, lodando il suo impegno nel contrasto alla pandemia. C’è anche chi lo ha persino paragonato a Henri Guisan, il generale che guidò l’esercito svizzero durante la Seconda guerra mondiale. Ma oltre alle spiegazioni di Berset, certo legittime, quali possono essere state le possibili altre ragioni delle sue dimissioni? O, in altri termini, quali i momenti in cui si era capito che per Berset il 2023 sarebbe stato con ogni probabilità il suo ultimo anno in Governo? Domande a cui si può rispondere con due episodi.

Il primo è legato a filo doppio a una cifra, quella della sua elezione a presidente della Confederazione per l’anno in corso. Berset ha assunto per la seconda volta questa carica grazie ai 140 voti ricevuti dal Parlamento, un risultato che diplomaticamente è stato definito «poco brillante». In realtà si tratta di una sorta di umiliazione. Prima di lui Ignazio Cassis era arrivato a 156 e Guy Parmelin a 188. Ueli Mauer nel 2018 aveva raggiunto le 201 preferenze. Un primato che condivide con Jean-Pascal Delamuraz. Vista come era andata l’anno scorso si poteva facilmente ipotizzare che l’elezione del prossimo dicembre, con il rinnovo dell’intero Consiglio federale per la nuova legislatura, sarebbe stata ad alto rischio per Berset. Meglio dunque evitare passi falsi, per lui e anche per il suo partito.

La fuga di notizie

Il secondo episodio invece riguarda la fuga di notizie dal suo Dipartimento durante l’emergenza della pandemia. Una vicenda su cui è in corso un’analisi da parte di una commissione del Parlamento. Al di là dei risultati che ne scaturiranno a pesare qui è soprattutto quanto capitato nella seduta che il Consiglio federale ha dedicato a questo tema nel gennaio scorso, con Berset che da presidente e decano del Governo, ha lasciato la sala, molto probabilmente su richiesta dei suoi colleghi, per permetter loro di affrontare questo tema in tutta libertà. Un fatto straordinario per un Governo di concordanza come quello svizzero. Nella conferenza stampa successiva il portavoce del governo André Simonazzi aveva poi più volte richiamato Berset, sollecitandolo a non andare oltre a quanto scritto nel comunicato stampa di quel giorno. Anche qui un’umiliazione, in Governo e davanti al Paese. Un secondo segnale che qualcosa per Berset dentro Palazzo federale si era inceppato. La vicenda va ancora chiarita. Il ministro socialista ha sottolineato che non ha influenzato la sua decisione di lasciare il Governo, ma a molti osservatori, in questi ultimi mesi Berset era sembrato una sorta di contro-figura rispetto al Consigliere federale che il Paese aveva conosciuto in questi ultimi anni, a lungo sul gradino più alto nei sondaggi che misurano la popolarità dei nostri ministri.

Quella marcia in più del politico di razza e del grande comunicatore era andata affievolendosi, sulla campanella dell’ultimo giro di pista. Rimangono le lodi di chi ha visto in lui «un homme d’État» come pochi nella storia recente del nostro Paese e di chi sottolinea uno dei risultati concreti di cui Berset può di certo vantarsi: l’essere riuscito a stabilizzare le finanze dell’AVS perlomeno fino al 2030. Altri prima di lui ci avevano provato, senza riuscirci. Sul fronte opposto emergono invece le critiche soprattutto per non essere riuscito a frenare il galoppo costante dei costi sanitari e dei premi delle casse malati. Ma al di là della pagella da dare a Berset ora si aprono tre partite.

La prima è interna ai socialisti, chiamati a individuare i profili ideali da lanciare nella corsa al Consiglio federale. Con alcuni cantoni, soprattutto svizzero-tedeschi, che si faranno avanti più di altri, in particolare Zurigo che mira a tornare al più presto in Governo e Basilea, che ha avuto finora solo tre consiglieri federali, l’ultimo, Hans-Peter Tschudi, negli anni ’60. La seconda sfida è quella tra i partiti, tra chi vuole confermare la propria presenza in Governo e chi ambisce a conquistare un seggio. I Verdi su questo punto sono tornati a farsi sentire, con il seggio socialista lasciato libero da Berset che rischia di vacillare. Ma anche le due poltrone del PLR non sono fuori pericolo. Tutto dipenderà dall’esito delle elezioni federali di ottobre. E poi c’è un ultimo punto di domanda: a chi andrà il Dipartimento dell’interno, che da gennaio dovrà avere una nuova guida? Risposta entro il prossimo Natale. La volata su questi tre fronti è dunque più che aperta, ci ha pensato l’ex mezzofondista Berset a lanciarla e ad accelerare le tante dinamiche di questo anno elettorale 2023.