Gli ultimi carbonai della Calabria

Serra San Bruno – In un paese di settemila abitanti sopravvive un mestiere antico che si tramanda di padre in figlio secondo una tecnica antichissima
/ 01.07.2019
di Luigi Baldelli

Sui monti di Serra San Bruno, in Calabria, in mezzo a boschi di faggi e lecci, non lontano dalla costa Jonica ma a circa 800 metri d’altezza, si trovano quelli che si potrebbero definire i protagonisti di una delle ultime archeologie industriali: i carbonai o carvunàri.

I pochi carbonai che ancora lavorano a Serra San Bruno sono gli ultimi eredi di un mestiere millenario. Questo mestiere, che consiste nel trasformare la legna in carbone, richiede una maestria e una fatica fuori dal comune. Un lavoro antico, che viene fatto interamente a mano e che si tramanda di padre in figlio. Gli adulti lo hanno appreso dal padre che a sua volta aveva imparato dal nonno e lo stanno tramandando ai loro figli. Prima a Serra San Bruno i carbonai si spostavano nei territori collinari o montani ricchi di boschi, dove vivevano con tutta la famiglia finché c’era la materia prima, la legna, e poi si stabilivano altrove. Rispetto al passato, oggi i carbonai sono rimasti davvero pochi, meno di una trentina. Un lavoro faticoso, si esce di casa alle 5 del mattino e si rientra alle 7 di sera. A volte ci si alza anche di notte per andare a controllare che tutto proceda nel migliore dei modi. Tutti i giorni dell’anno.

La carbonaia o «scarazzu» è un enorme cupola perfettamente circolare di 6/7 metri di diametro e circa 3/4 metri di altezza con un foro al centro.

Si costruisce con la legna, con i tronchi più grandi al centro, che formeranno la caldaia, e con altri, sempre di diametro più piccolo verso l’esterno che costruiscono la carbonaia. Poi viene coperta di paglia e infine ricoperta di terriccio. Un lavoro che richiede 2 o 3 giorni. Dal foro in alto si inserisce la legna dentro la caldaia e si accende il fuoco. Il legno brucia e il fumo e il calore fanno diventare carbone i legni che circondano la caldaia. Il fumo del fuoco all’interno trova sfogo da piccoli fori ai lati o passa attraverso la paglia e la terra, oppure dal foro in alto. Queste cupole sono davvero piccoli vulcani costruiti dall’uomo.

Il processo che trasforma il legno in carbone dura circa 3 settimane e la caldaia al centro della carbonaia va alimentata a intervalli di tempo e nel modo giusto per tutto questo periodo salendo con una scala fino in cima alla carbonaia, perché se il fuoco si spegne o diventa troppo forte, si distrugge tutto il lavoro. Dopo circa 3 settimane, si toglie la terra e si inizia ad accatastare il carbone dividendo i pezzi più piccoli da quelli più grandi E anche qui, altri due giorni di lavoro. Alla fine da circa 500 quintali di legna (dipende dal tipo di legna) si ricavano circa 100 quintali di carbone.

Il mio Caronte, in questo inferno di fumo e terra nera, è Cosimo, il figlio di Angelo. Qui, in questo spiazzo tra le montagne, circondato da alberi e ruscelli, la famiglia lavora tutti i giorni, tutto l’anno. Sono Angelo e i suoi fratelli Nazzareno e Bruno. Ed insieme a loro i figli di Angelo e Nazzareno che entrambi si chiamano Cosimo.

«Mi piace costruire la carbonaia, mi dice Cosimo, il piccolo dei due, 21 anni e un diploma di geometra. L’odore del fumo ti rimane addosso, ma è un odore che mi piace. Il salario non è alto, circa 1500 euro al mese, ma va bene così». Nazzareno padre lo osserva mentre costruisce lo «scarazzu», lo segue e lo corregge. Anche lui ha imparato dal padre, lo ha seguito passo passo, dopo tre anni riuscì a costruire la prima carbonaia da solo, e adesso insegna a suo figlio. Il quale, dopo due anni che lavorano insieme, non è ancora capace a fare bene la carbonaia, ha bisogno della supervisione del padre. In inverno, tutte le notti, devono venire a controllare che il fuoco lavori nel modo giusto e non trasformi la legna in cenere. Certe notti anche 2 o 3 volte passano a controllare che tutto proceda per il meglio. La presenza dei carbonai nella Serra di San Bruno risale già al 1700 e anche oggi, se sono rimasti in pochi, hanno un ruolo nell’economia del territorio con tutto l’indotto che ruota intorno a loro. Taglialegna, camion per il trasporto, negozi di attrezzatura per tagliare la legna eccetera, a Serra San Bruno, paese di 7500 abitanti, l’economia si basa sull’attività boschiva.

A 100 metri da Nazzareno e il figlio, il rumore della motosega è costante: Bruno taglia i tronchi a misura per costruire la nuova carbonaia. Procede spedito, sicuro dei suoi movimenti. È il più giovane dei tre fratelli, 46 anni, e ha sempre il sorriso sul volto. Un grande naso divide gli occhi scuri e vispi. Le mani callose. «Non andrei mai via di qui, io non sono mai andato via neanche una volta dalla mia terra non sono mai uscito dal territorio di Serra San Bruno», dice mentre sposta piccoli tronchi di legna, «mi piace vivere in mezzo al bosco, mi piace questo lavoro. E poi» continua mentre si accarezza la barba ispida, «faccio questo lavoro fin da piccolo, non riesco a staccarmene e non so fare altro».

Serra San Bruno è uno dei pochi paesi che resiste allo spopolamento, malattia endemica di molte parti del Sud Italia, dove disoccupazione e mancanza di alternative costringono ad emigrare. E fare il carbonaio, anche se è un lavoro «sporco», dà da mangiare. Perché il carbone che si produce qui viene venduto soprattutto a ristoranti e pizzerie in Toscana, Puglia, Sicilia, Basilicata e altri posti ancora. È un carbone vegetale e non è tossico come quello minerale, un carbone di qualità. Fino agli anni 70 i carbonai vivevano nel bosco con tutta la famiglia e scendevano in paese a Ferragosto, Natale e alla festa del patrono, San Biagio. E il rapporto che si crea tra il carbonaio e la terra è quasi un rapporto ancestrale. 

Camminando tra questi piccoli vulcani costruiti dall’uomo, osservo Angelo, 57 anni. Oggi è la giornata del «raccolto», una carbonaia ha finito il suo ciclo, ha trasformato tutta la legna in carbone. Bisogna scoperchiarla, togliere la terra, raccogliere e sistemare il carbone. Nuvole di polvere nera si alzano ovunque. Ma lui si muove rapido, sa da dove iniziare, impartisce brevi ordini e consigli al figlio che lavora con lui. In poco tempo il volto di entrambi è diventato una maschera nera. Risaltano solo gli occhi. Con esperienza dividono il carbone, nelle varie misure. Angelo, la schiena curva per raccogliere il carbone, si ferma raramente per riposarsi. E alza lo sguardo solo per controllare il fumo che esce dalle altre carbonaie. 

In base al colore del fumo, sa esattamente se tutto procede bene. E quando qualcosa non lo convince oppure quando è tempo di un controllo, va subito a vedere. Alla fine si ferma un attimo e appoggia la mano nera di carbone sul manico della sua pala. La sua maglietta bianca ormai è grigio scuro, così come i suoi pantaloni. Gocce di sudore scendono dalla fronte nera di polvere e scavano piccoli solchi. È davvero faticoso, non ti fermi mai, gli dico mentre manda giù un sorso di acqua fresca. Mi guarda come se avessi detto qualcosa di strano, e poi, incrociando le mani, mi dice: «La carbonaia mi dà da mangiare, ma è anche un lavoro di sacrificio, perché è lei che detta i ritmi, i tempi di lavoro, giorno e notte. E non puoi fermarti, non puoi rimandare, perché se non rispetti i tempi, il tuo lavoro va davvero in fumo». E si apre ad un sorriso, mostrando i denti che sembrano più bianchi di quello che sono. 

Quando ormai il sole è sceso dietro le montagne, rientro a piedi verso il paese. La certosa di Serra San Bruno è giù, in fondo alla valle. Al suo interno monaci benedettini di clausura staranno forse dicendo le preghiere dei vespri. Avvolti anche loro in nuvole di fumo: quelle dell’incenso e delle candele. Ma addosso hanno candide tonache bianche.