Gli interessi in gioco nella partita ucraina

Tutte le parti in causa stanno mettendo le loro carte in tavola per convincere l’avversario ad accettare un negoziato
/ 14.02.2022
di Anna Zafesova

La lunga pausa che Vladimir Putin si è preso prima di formulare la sua risposta alla proposta di aprire con l’Occidente un negoziato sulla sicurezza, è stata riempita da un’attività diplomatica di un’intensità senza precedenti, su più fronti. Nella partita tra il Cremlino, la Casa bianca e la Nato sono apparsi nuovi attori – a est e a ovest – moltiplicando ogni giorno gli interessi e le poste in gioco. Da Occidente, il negoziato sull’escalation intorno ai confini dell’Ucraina ha visto l’ingresso dell’Europa, esclusa per volontà dello stesso leader russo, che però non nasconde la sua soddisfazione per essere diventato, dopo anni di isolamento internazionale, un interlocutore ricercato da tutti. Il primo a godere dell’ospitalità del Cremlino è stato Emmanuel Macron (nella foto a destra), che ha negoziato con Putin anche in veste di presidente di turno dell’Ue, seguito dal neo cancelliere tedesco Olaf Scholz. Entrambi hanno visitato sia Mosca che Kiev, in rigorosa par condicio diplomatica.

Altri leader hanno preferito recarsi per ora soltanto nella capitale ucraina, come il premier olandese Mark Rutte e soprattutto il primo ministro britannico Boris Johnson che – grazie anche alla maggiore libertà di manovra diplomatica dovuta alla Brexit – ha portato al presidente Volodymyr Zelensky due promesse importanti: quella di un’alleanza trilaterale tra Regno Unito, Polonia e Ucraina, anche a scopi difensivi, e quella di pesantissime sanzioni contro gli oligarchi russi che hanno scelto Londra come destinazione per le loro famiglie e i loro capitali.

Mentre il Governo ucraino continua a smorzare i toni riguardo a un imminente attacco militare dei russi – anche la Casa bianca ha eliminato dal suo vocabolario il termine «imminente» dopo un’esplicita richiesta di Zelensky, alle prese con il panico di una parte della popolazione e la fuga degli investitori – intorno a Kiev si stanno creando molteplici alleanze a geometria variabile, che si sovrappongono solo parzialmente alla Nato e alla Ue. Un altro alleato importante è arrivato da Ankara: ai droni turchi già impiegati dall’esercito ucraino in Donbass, Recep Tayyip Erdogan ha aggiunto un importante accordo commerciale, e nei progetti c’è anche un dossier di difesa bilaterale. Nella partita ucraina il presidente turco ha sempre giocato dalla parte di Kiev, anche perché la Crimea annessa dai russi nel 2014 è abitata dalla minoranza turcofona dei tartari, che denunciano la repressione delle autorità russe nei loro confronti. Però strizza l’occhio anche a Mosca, con la quale combatte su una serie di scacchieri come la Siria, e condivide anche un certo astio verso l’Occidente, proponendosi come mediatore di un vertice tra Zelensky e Putin in territorio turco, invito già accettato dal leader ucraino.

L’impressione è che tutte le parti stiano mettendo le loro carte in tavola per convincere l’avversario ad accettare un negoziato. I rischi per Putin sono stati messi molto in chiaro, tra sanzioni internazionali e costi militari. Mentre a Kiev continuano ad atterrare aerei carichi di armi e aiuti militari (in quantità molto esigue rispetto alle esigenze di un’ipotetica guerra, ma l’importante è il segnale) dagli Usa, Regno Unito, Canada e dai Paesi dell’Europa dell’est e del nord, e assistenza economica da Bruxelles e Parigi, il Pentagono ha stimato il costo di un’eventuale invasione russa in 25-50 mila vittime civili e in un’ondata di profughi che non si era vista in Europa dopo il 1945.

Quest’ultima dichiarazione potrebbe essere anche funzionale a spronare alcuni alleati europei reticenti, in particolare la Germania, che si è rifiutata di inviare aiuti militari all’Ucraina e ha bloccato la fornitura di armi di produzione tedesca attraverso Paesi terzi. Prima di partire per Mosca Scholz però è andato a Washington, dove Joe Biden ha promesso di bloccare, in caso di guerra, il gasdotto North Stream 2. Il cancelliere tedesco, al suo fianco, non ha obiettato, facendo pensare che la resistenza di una parte del mondo politico e imprenditoriale tedesco, spaventato per la dipendenza dal gas russo, è stata vinta dalla promessa di Biden di ottenere per l’Europa fonti di approvvigionamento alternative.

Sul fronte opposto, Putin è riuscito a incassare l’appoggio di Xi Jinping. Il leader russo è volato all’apertura delle Olimpiadi di Pechino, occasione per una dichiarazione congiunta che chiede di fermare l’allargamento della Nato a est (Putin ha ricambiato promettendo di non riconoscere Taiwan). Dal testo del documento mancano però altri impegni decisivi: Xi non menziona la Crimea, che non ha mai riconosciuto come russa, e Putin non promette di non fornire più a Vietnam e India armi che hanno una chiara funzione anticinese. Il contratto sulle forniture di gas a Pechino non raggiunge nemmeno lontanamente i prezzi praticati da Gazprom in Europa, e sembra che Xi non abbia nessuna intenzione di litigare con l’Occidente per le pretese postimperiali russe, anche se non perde l’occasione di mostrare a Biden la prospettiva di un fronte antiamericano russo-cinese. Gli occidentali hanno deciso di prendere le minacce della propaganda russa fin troppo sul serio, offrendo la scelta tra un bastone di sanzioni e aiuti che di fatto trasformerebbero un’eventuale guerra della Russia con l’Ucraina in uno scontro per procura con l’Occidente, e la carota di un negoziato sulla sicurezza «senza precondizioni né limiti di tempo», come promette il segretario generale della Nato Jens Stoltenberg, se il Cremlino lascia cadere il suo ultimatum sull’Ucraina. Una proposta alla quale forse Putin non era pronto, almeno a giudicare dalla sua conferenza stampa con Macron, durante la quale ha ripetuto le stesse lamentele e minacce che fanno parte del suo repertorio dal 2014.

L’effetto sorpresa per una ipotetica offensiva è stato rovinato, gli occhi di tutto il mondo sono puntati sulle 130 mila truppe russe ammassate al confine con l’Ucraina, a est nel Donbass, a sud in Crimea e a nord, in Bielorussia, dove sono in corso le più massicce manovre che la regione ha visto dopo la Guerra fredda. Il crollo del rublo e della Borsa di Mosca rende ancora più chiari i rischi di una guerra impossibile. Il problema, per Putin, resta quello di non potersi mostrare arrendevole e uno degli obiettivi principali di questa diplomazia intensa e corale consiste proprio nel trovare una chiave per non fare apparire la de-escalation ai confini ucraini – condizione sine qua non di Washington, Bruxelles, Parigi, Berlino e Kiev – come una sconfitta.