Quando nel 2011 due giornalisti politici d’esperienza, Steve Lewis e Chris Uhlmann, hanno iniziato a pensare a un romanzo ispirato al loro lavoro quotidiano nei corridoi dei Palazzi del potere di Canberra, non avrebbero mai immaginato che la fiction si sarebbe trasformata a breve in un racconto del reale. Gli omicidi irrisolti e i complotti del governo di cui è condito The Marmalade Files e la serie tv a cui è ispirato, Secret City, sono solo una parte della storia. Tutti i personaggi e le loro scelte politiche si muovono in un contesto che è il problema cruciale dell’Australia di oggi: la dicotomia tra America e Cina. Ogni decisione politica vuol dire schierarsi, scegliere la rassicurante e tradizionale alleanza del blocco occidentale oppure cedere all’influenza cinese, maggior partner commerciale del Paese.
Sono almeno dieci anni che in Australia si dibatte sulla presenza di Pechino in qualunque attività della vita pubblica del Paese. All’inizio dei Duemila la Cina ha iniziato a penetrare il mondo del business australiano, poi ha allargato il tiro, e gli investimenti sono passati anche nelle università, nei think tank e nei luoghi del pensiero – dove il soft power ha terreno fertile. Ha aspettato, con pazienza confuciana, fino ad arrivare a Canberra, nei corridoi della politica, dove oggi in un modo o nell’altro determina il dibattito pubblico.
L’esempio australiano è quello più ricorrente in questi giorni, se si pensa all’Europa. La scorsa settimana, il presidente del Consiglio europeo Donald Tusk e il presidente della Commissione Jean-Claude Juncker sono volati a Pechino per il ventesimo vertice Ue-Cina. Nella dichiarazione finale congiunta, Europa e Cina sono d’accordo su ogni punto, sulla necessità di aumentare gli scambi commerciali e di proteggere i mercati, ma quasi niente si dice sulle questioni più controverse che riguardano la Cina: i diritti umani, l’espansionismo militare, le minacce a Taiwan. Non era mai successo prima, perché l’Europa non aveva mai rinunciato ai suoi tradizionali valori occidentali: qualcosa sta cambiando.
«Mentre tutti sono preoccupati per la Russia», scriveva a febbraio sul «Washington Post» Rick Noack, «la Cina sta silenziosamente espandendo la sua influenza nel Vecchio continente». Rispetto al Cremlino, però, la strategia di Pechino è ben più consistente e destinata a durare nel lungo periodo. Del resto, la ritirata di Washington dalle questioni globali, l’ondata di protezionismo, ma soprattutto la difficoltà di comprendere la strategia di Donald Trump, che scappa dal G7 e schiaffeggia i membri della Nato, rendono la Cina di Xi Jinping un alleato perfetto per l’Europa. Xi è l’uomo che durante il Forum economico di Davos, mentre Trump usciva dal progetto del Trans Pacific-Partnership, diceva ai suoi alleati che la Cina sarebbe diventata l’avvocato difensore del globalismo e del libero mercato. Ma a che prezzo? Il problema, secondo vari report pubblicati nell’ultimo anno, è che l’élite politica europea non considera ancora la Cina come una minaccia, ma semplicemente ne prende il buono sul breve periodo: soldi, investimenti, infrastrutture e tecnologie ad alto tasso di rendimento.
Il presidente francese Emmanuel Macron ha detto in passato di essere pronto a creare una «moderna alleanza» tra Pechino e l’Europa, e dopo il suo ultimo viaggio nella capitale cinese il primo ministro inglese Theresa May è tornata a casa con 13 miliardi di dollari in accordi commerciali. Entrambi non hanno mai fatto cenno alla questione dei diritti umani in Cina. A quanto pare, l’unica ad aver posto dei limiti all’influenza di Pechino per ora sembra essere la Germania di Angela Merkel, pur essendo il maggior partner commerciale dei cinesi in Europa (nel 2017 gli affari totali tra Berlino e Pechino hanno raggiunto i 230 miliardi di dollari). Qualche mese fa, durante un vertice con il primo ministro della Macedonia Zoran Zaev, commentando l’enorme presenza della Cina nella regione dei Balcani la cancelliera tedesca ha detto: «A noi va benissimo che Pechino voglia fare commercio e investire. Quello che mi chiedo è: le questioni economiche nascondono poi delle richieste politiche? Perché questo non sarebbe nello spirito del libero commercio».
Il 10 luglio scorso, la Cina ha rilasciato la poetessa e attivista Liu Xia, vedova di Liu Xiaobo, premio Nobel per la Pace morto in regime di detenzione in Cina un anno fa. Entrambi sono due tra i più famosi dissidenti politici cinesi, e da anni l’Occidente si interroga sulla necessità di fare la voce grossa con Pechino per chiederne la liberazione. Secondo vari media, l’unico paese ad aver fatto reali pressioni sulla Cina è stata la Germania, dove Liu Xia è volata non appena ha ricevuto l’autorizzazione a lasciare il Paese. Oggi la Germania è la casa di numerosi dissidenti ed esuli cinesi.
L’influenza di Pechino agisce su vari fronti – sul sistema accademico, su quello del business e dei media. Ai suoi più stretti alleati la Cina chiede di chiudere un occhio sulle violazioni dei diritti umani e sul sistema antidemocratico che decide chi governa. Ma non c’è solo questo: anche la tecnologia cinese è «un pericolo per la sicurezza nazionale», secondo il rapporto del Pentagono, che ha vietato l’acquisto di componenti delle compagnie tecnologiche parastatali cinesi perché potrebbero essere usate per rubare informazioni e spiare. La questione non sembra preoccupare i singoli paesi europei, e da Bruxelles arrivano segnali contrastanti. Su richiesta esplicita di vari funzionari cinesi di formare un fronte comune contro i dazi e il protezionismo americano, l’Europa avrebbe rifiutato. Eppure, la lettera firmata da 27 dei 28 ambasciatori europei a Pechino che chiedeva di controllare e frenare l’espansionismo cinese perché «contrario all’agenda liberale dell’Ue e sposta l’equilibrio del potere a favore di società cinesi sovvenzionate dal governo» è stata pressoché ignorata, sia dalla politica sia dai media.