Il prossimo test per Xi Jinping sarà il solenne funerale di Stato per il suo predecessore Jiang Zemin, che fu segretario generale del Partito comunista e presidente della Repubblica popolare dal 1993 al 2002 ed è deceduto all’età di 96 anni. I funerali dei leader, in un sistema sempre più «imperiale» come quello cinese, rivestono un’importanza simbolica e liturgica nella storia della dinastia comunista. Poiché sono una delle rare occasioni in cui al popolo è consentito sfilare in massa, queste esequie di Stato possono diventare anche l’occasione per proteste e tumulti. Sia la morte di Mao Zedong sia quella del suo premier Zhou Enlai furono accompagnate da tensioni e disordini. Il caso più importante rimane il funerale di Hu Yaobang, leader riformista deceduto nel 1989. Era molto amato da coloro che in quell’anno aspiravano a maggiori libertà e diritti umani. Le esequie di Hu Yaobang segnarono una improvvisa escalation di proteste in quell’anno. Jiang Zemin non era altrettanto amato, però alcuni cinesi oggi possono avere nostalgia per le sue «aperture»: all’America, all’economia di mercato. La città di Shanghai, che in tempi recenti è stata percorsa da proteste contro i lockdown da pandemia, godette dei favori di Jiang Zemin e fu un laboratorio della transizione al capitalismo con cui la Cina conquistò un benessere economico per la maggioranza della sua popolazione. La scomparsa di Jiang Zemin potrebbe fornire nuovi pretesti per lamentare le rigidità a cui Xi sottopone la Cina di oggi.
Le proteste che hanno agitato la Cina nelle scorse settimane, scatenate dalle tremende restrizioni per la pandemia, per alcuni osservatori occidentali hanno evocato il ricordo della grande rivolta di Piazza Tienanmen nel 1989. I paragoni per adesso sono esagerati. L’occupazione di Piazza Tienanmen da parte degli studenti fu preceduta da mesi di manifestazioni con milioni di persone in piazza in tutte le città. Era una Cina povera, dove una forte inflazione aveva decurtato il potere d’acquisto. I vertici del partito comunista erano spaccati fra correnti. Il patriarca Deng Xiaoping dovette orchestrare un golpe militare, per esautorare un premier riformista che cercava il dialogo con gli studenti. La Cina di Xi Jinping è una superpotenza con una ricchezza economica e un livello tecnologico più vicini agli Stati Uniti. La sua popolazione gode di un benessere che nessuno immaginava 33 anni fa. Il regime si assume il merito di aver governato questo miracolo. Lo ha consentito garantendo sicurezza e stabilità. In nome di queste, ha costruito un formidabile apparato poliziesco. Marxista-leninista, confuciano, tecnocratico, il Partito comunista è anche «partito d’ordine».
Oggi al vertice del partito non sono visibili delle correnti in lotta. Xi ha eliminato i rivali; i fautori di linee politiche alternative sono quasi tutti in carcere, con il pretesto della lotta alla corruzione. Solo al comando, almeno per adesso, è contro se stesso che Xi deve combattere se vuole correggere gli errori che ha accumulato. Il Covid è la sfida più tremenda nell’immediato. Per una nemesi storica, il regime che ha mentito al mondo intero sulle origini della pandemia, ha mentito anche a se stesso. Xi ha descritto la politica «zero Covid» come un trionfo in contrasto con la débacle dell’Occidente. Si è infilato in un vicolo cieco perché «zero Covid» implica la paralisi, ripetuta e prolungata, a colpi di lockdown. Se dovesse rilassare quella strategia, in cambio della ritrovata libertà di movimento cosa si può aspettare? Il Covid ha fatto un milione di morti negli Stati Uniti (in linea con la media occidentale), per proporzione demografica dovrebbe farne quattro milioni in Cina. Ma le proporzioni non reggono perché la Cina ha ospedali più arretrati e vaccini meno efficaci. Pechino dovrebbe replicare una «liberalizzazione controllata» sul modello dei vicini coreani, giapponesi e taiwanesi, campioni del mondo per il basso numero di vittime del Covid. Ma a Tokyo, Seul e Taipei la disciplina sociale, il rispetto delle regole e l’igiene preventiva si accompagnano a sistemi sanitari ben più evoluti… e vaccini americani. Xi ha promesso al suo Paese qualcosa che forse è impossibile, è prigioniero della sua stessa propaganda.
Gli errori si cumulano. In economia il ritorno allo statalismo coincide con un rallentamento della crescita e l’aumento della disoccupazione giovanile. In politica estera l’appoggio a Putin in Ucraina inasprisce la guerra fredda con gli Stati Uniti e accelera una crisi della globalizzazione che penalizza l’economia cinese. Parlare di un’altra Tienanmen per il momento non ha senso, però qualcuno al vertice del partito comincerà a preoccuparsi per i segnali di esasperazione nel ceto medio e tra gli studenti universitari: due gruppi finora fedeli al regime. Noi occidentali siamo troppo veloci a interpretare ogni protesta di piazza a Pechino come un segnale premonitore di una «crisi di regime». Che cosa rende certi sistemi politici autoritari solidi, stabili e sostenibili nel lungo termine? Il Governo cinese sta già rispondendo alle proteste con qualche allentamento delle misure pandemiche, segno che il regime qualche volta «ascolta la piazza». Del resto le proteste non sono affatto rare in Cina, anche se è abbastanza inusuale il coinvolgimento di studenti e ceto medio. In tempi normali, pre-pandemia, nella Repubblica popolare venivano regolarmente censite varie centinaia di manifestazioni di protesta all’anno: per motivi economico-sindacali, o contro episodi di corruzione, o per gravi incidenti da inquinamento. In certi casi la risposta è repressione pura, in altri casi il regime è più accomodante e cerca di venire incontro alle richieste dei manifestanti.
Sulla solidità delle autocrazie un’analisi importante viene proposta da Steven Levitsky e Lucan Way nel saggio Revolution and Dictatorship: The Violent Origins of Durable Authoritarianism (Princeton University Press). Questi autori cercano di individuare gli ingredienti che rendono più stabili e durevoli certi regimi autoritari. Isolano tre fattori cruciali. Il primo è la coesione della élite dominante, essenziale per impedire le fratture interne che spesso portano alla crisi di regime. I movimenti di opposizione hanno più facilmente successo, se possono appoggiarsi sulla defezione di un pezzo di élite. Il secondo fattore che garantisce longevità ai regimi è il grado di potenza, fedeltà e lealtà delle forze di sicurezza: esercito e polizia. Il terzo è la debolezza e divisione dell’opposizione. Una delle conclusioni a cui giungono Levitsky e Way riguarda le origini storiche dei regimi autoritari: quelli che hanno più probabilità di durare, spesso affondano le radici in una matrice «rivoluzionaria», che aiuta a costruire la coesione della nomenclatura. Per Xi Jinping la vittoriosa rivoluzione maoista del 1949 ha dato luogo perfino ad una sorta di legittimità «dinastica»: il padre di Xi era uno dei compagni di Mao Zedong nel periodo fondatore del comunismo.