Gli effetti dell’avanzata della Nato in Oriente

La nuova cortina di ferro si sposta sempre più verso il Cremlino che reagisce guardando a Pechino. Mentre l’Occidente sembra incapace di valutare le conseguenze della possibile disintegrazione della Federazione russa
/ 12.07.2021
di Lucio Caracciolo

Lo spazio è la misura primaria dell’identità russa. Quanto più il nemico si avvicina al centro del potere, tanto più il russo arretra e arrocca. Almeno mille anni di storia confermano questo postulato. Mai però, almeno da un secolo, la minaccia era percepita così prossima. Il progressivo allargamento della Nato verso Oriente e il conseguente spostamento della nuova cortina di ferro verso il Cremlino hanno instillato un nuovo senso di insicurezza nella leadership e nella popolazione russa. Consideriamo solo che fino al 1994 l’esercito russo era a Berlino. Oggi è arretrato fino alla Crimea. Ce ne è abbastanza per risvegliare i  peggiori fantasmi della storia e della geopolitica russa. Proviamo a osservare la questione dal punto di vista occidentale. Ridotta all’essenziale si prospetta così: fino a che punto ci conviene stringere la Federazione russa nell’angolo? E nel caso si disintegrasse sotto la nostra pressione, ci converrebbe? E se ci convenisse, e quindi continuassimo a premere verso Mosca, cosa ne faremmo di quell’immenso spazio che continua fino all’Estremo oriente siberiano? Non sembra che americani e alleati europei abbiano davvero considerato le conseguenze dell’espansione nella canonica sfera di influenza russa.

La svolta decisiva è stata l’Ucraina nel 2014 , quando gli Usa – dribblando la patetica mediazione europea (leggi franco-tedesca) – hanno prima finanziato e sostenuto, poi cavalcato la rivolta di Euro Maidan. Fino al colpo di Stato che ha messo in fuga il presidente Janukovich, piuttosto inefficiente e impresentabile fantoccio di Putin. Da allora, l’allarme rosso nelle stanze del potere russo si è fatto permanente. La tensione lungo tutta la nuova cortina di ferro, sempre più militarizzata, può involontariamente sfociare in un incidente capace di accendere l’incendio Nato-Russia. Ma la conseguenza più importante della perdita dell’Ucraina, al di là del suo enorme valore simbolico e strategico per Mosca, è il fatto che quella avanzata occidentale si è tradotta in un regalo per la Cina. Vladimir Putin era andato al potere nel 2000 dichiarandosi pronto ad aderire alla Nato. Proposta mai presa in considerazione da Washington, in quanto considerata ridicola o provocatoria. Reazione comprensibile e scontata, perché l’integrazione della Russia nell’Alleanza atlantica avrebbe reso incomprensibile la presenza militare americana in Europa, sigillo e premessa del suo impero globale.

L’effetto strategico dell’avanzamento americano verso Oriente è stato la formazione della strana coppia Cina-Russia, due civiltà prima che due potenze di primo rango, che la storia ha quasi sempre diviso se non opposto. È difficile quindi immaginare che gli strateghi di Washington abbiano considerato nel 2014 questa decisiva conseguenza della vittoria in Ucraina. Ora però sono di fronte al fatto compiuto. Immaginare il contenimento della Cina senza che la Russia vi partecipi in un modo o nell’altro – magari solo implicitamente – è impossibile. È invece non solo possibile, anzi ormai fattuale, che lo scarrellamento della Russia verso l’Impero del centro abbia moltiplicato la potenza cinese. Mai prima Mosca aveva ceduto a Pechino armamenti di punta, tecnologie sofisticate anche i ambito spaziale e cyber, oltre allo scontato approvvigionamento di gas e materie prime siberiane. Certo questa apparente eccezione della storia è reversibile. Ma non finché americani e altri occidentali continueranno a premere e avanzare verso Mosca, passando magari per Minsk, capitale della Bielorussia. Paese di fatto satellizzato dai russi, tanto che il confine con la Federazione non è demarcato. Bisogna inoltre considerare che i Paesi della fascia di prossimità antirussa – non solo appartenenti alla Nato – sembrano culturalmente e strutturalmente incapaci di valutare le conseguenze globali della disintegrazione della Russia. Essi stessi potrebbero contribuire in caso estremo ad accendere quella miccia che porterebbe a un conflitto di possibili dimensioni nucleari.

Sarebbe utile per gli strateghi di Washington recuperare nei loro archivi l’esercizio Solarium, con cui nel 1953 il presidente Eisenhower spiegò ai suoi tecnocrati e leader politici perché all’America non convenisse la guerra globale contro l’Urss. Con tre argomenti decisivi. Primo, non c’è niente di peggio che la vittoria in una guerra globale, perché ci obbligherebbe a militarizzare la società americana. Secondo, noi americani non abbiamo nessun interesse a gestire lo smisurato Continente sovietico (russo). Terzo, questa guerra significherebbe probabilmente la fine dell’umanità. La visione dell’ex comandante in capo alleato in Europa conserva una certa attualità.