Gli echi della guerra

Il conflitto del Donbass si avverte anche a Leopoli, raffinato capoluogo dell’ovest ucraino. Una ferita aperta che si potrà verosimilmente risolvere solo con un cambio ai vertici di Mosca
/ 19.07.2021
di Anna Zafesova

«Un saluto ai musicisti, agli eroi che ci hanno curato nei nostri ospedali e agli eroi che ci difendono a est», grida il sindaco Andriy Sadovyi e la platea risponde con un applauso fragoroso. Il festival del jazz di Leopoli torna dopo due anni di pausa. La città è stata per mesi la zona rossa più colpita dell’Ucraina e l’euforia di trovarsi a un concerto dal vivo contagia gli spettatori quanto i musicisti, con star del calibro di Wynton Marsalis e Kamasi Washington a confessare di essere saliti sul palco per la prima volta dall’inizio della pandemia. Il Coronavirus sembra battere in ritirata, un momento da festeggiare, ma quando il cantante ucraino Dmitry Shurov – che ha scritto, tra l’altro, la sigla della serie televisiva «Servo del popolo», diventata di fatto lo spot elettorale che ha trasformato l’attore comico Volodymyr Zelensky in presidente – intona la canzone «Patria», il pubblico canta insieme a lui, «come se io fossi un soldato catturato prigioniero dai nemici». Leopoli è la capitale dell’ovest ucraino, la frontiera con la Polonia e l’Europa è a un’ora d’auto, il Donbass e il confine con la Russia sono dal lato opposto del Paese. Ma il respiro della «guerra a bassa intensità», come il linguaggio diplomatico dell’Onu definisce un conflitto che dal 2014 è costato la vita a più di 13 mila persone, di cui un quarto civili, si avverte in questa città raffinata, dove per le vie costeggiate da splendidi palazzi in perfetto stile Secessione viennese si possono vedere marciare soldati armati.

Leopoli, oggi la Lviv ucraina, è stata anche la Lwow polacca e la Lemberg austro-ungarica, e il sindaco Sadovyi, seduto nel suo spettacolare ufficio con terrazzo affacciato sulla Piazza del mercato, una gemma rinascimentale piena di turisti a ogni ora, racconta il suo progetto di far ripartire la città dalla cultura, «perché abbatte i confini», ma ricorda anche che la regione circostante è «il campo di addestramento più grande d’Europa». Un’eredità dei tempi sovietici, quando Leopoli, la capitale della Galizia, annessa nel 1939 da Stalin grazie alla spartizione dell’Europa dell’est stipulata con Hitler (il famoso protocollo segreto del patto Molotov-Ribbentrop di cui Mosca per decenni aveva negato l’esistenza), era l’avamposto sovietico di un’ipotetica invasione da Occidente.

Oggi la guerra è a Oriente, e la frontiera ucraina viene sfondata sul fronte russo, ma Leopoli è anche la capitale dell’identità nazionale, qui la resistenza partigiana all’invasione sovietica è durata fino alla fine degli anni Cinquanta, e molti volontari nel Donbass si sono arruolati qui. La città ha mandato aiuti, sovvenzionato combattenti e accolto profughi: contrariamente alla propaganda russa, che dipinge Leopoli come una roccaforte del nazionalismo più agguerrito, per le strade si sente parlare russo e ucraino indifferentemente, forse perfino più di qualche anno fa, proprio grazie agli sfollati da Donetsk.

La guerra dimenticata nel cuore dell’Europa ha prodotto 2,5 milioni di profughi, di cui quasi un milione emigrati – principalmente in Polonia e in Russia – e un milione e mezzo fuggiti in altre regioni ucraine. Zelensky ha vinto le elezioni nel 2019 in buona parte sulla promessa della pace, ed è riuscito a riavviare un negoziato con Vladimir Putin, che però subito dopo un importante scambio di prigionieri si è arenato sullo stesso scoglio di sempre. Il Cremlino chiede uno status speciale per le zone separatiste che ha di fatto occupato, Kiev vorrebbe prima il ritiro delle truppe e la chiusura della frontiera con la Russia. Il conflitto è una ferita aperta che non solo ipoteca la crescita economica e la prospettiva di adesione a Nato e Ue, ma che infonde nella giovane Nazione un senso di incompiutezza.

Negli ambienti politici di Kiev circola da qualche anno in sordina un inconfessabile piano B, lasciar perdere il Donbass, consegnare i territori occupati a Putin e voltare le spalle all’est per andare avanti verso l’ovest. «Impensabile», taglia corto una giovane diplomatica ucraina, originaria di Donetsk: «Significherebbe una rivolta in piazza, di quelli originari del Donbass e di tutti gli altri ucraini. Abbiamo famiglie divise, abbiamo lasciato lì le nostre case e i nostri cari, non possiamo abbandonarli». Maidan, la piazza delle rivoluzioni, è l’incubo perenne di tutti i Governi ucraini, ma un altro profugo da Donetsk, oggi un altolocato dirigente di una grossa società (molti esuli del Donbass hanno fatto ottime carriere a Kiev), è invece a favore del muro: «Noi abbiamo scelto di restare ucraini, laggiù sono rimasti solo vecchi nostalgici». Secondo questo ragionamento, scaricare un territorio devastato dalla guerra, con un’industria obsoleta e distrutta e un welfare insostenibile, al nemico significherebbe forse infliggergli un colpo fatale, dopo il prezzo pagato – in sanzioni estere e sovvenzioni interne – per l’annessione della Crimea.

Putin ha appena dichiarato di non voler più parlare con Zelensky – «è inutile, ha consegnato il suo Paese agli americani» – e il conflitto appare congelato in uno stallo che verosimilmente si potrà risolvere soltanto con un cambio del regime a Mosca. Nell’attesa l’obiettivo ucraino è quello di evitare che il Cremlino espanda le sue mire al resto del sud e dell’est ucraino, soprattutto dopo che Putin in un saggio ha teorizzato che russi e ucraini «sono lo stesso popolo», diviso dalle trame prima polacche e poi americane, e che Kiev si è appropriata di territori «storicamente russi». «In realtà è la Russia un Paese dai confini discutibili», ribatte ironicamente il governatore della regione di Leopoli Maksym Kozytsky, alludendo al sud della Federazione russa, quello dei cosacchi e del placido Don. Leopoli è stata storicamente sempre un melting pot. Un intero quartiere è intitolato agli armeni, le due sinagoghe sono state distrutte dai nazisti, che hanno fucilato anche tutta l’intellighenzia polacca che non era ancora finita in Siberia, e lo stesso festival del jazz è sponsorizzato da una banca che fa capo a un banchiere moscovita di origine ebrea nato a Leopoli. I nazionalisti duri e puri sono ormai una specie abbastanza rara, e gli unici a rimproverare quelli che parlano russo sono i camerieri del ristorante Kryivka, che sono vestiti da guerriglieri di Bandera (dell’Esercito insurrezionale ucraino formatosi negli anni Ottanta del Novecento) e minacciano in modo teatrale i divertiti turisti russofoni, prima di servire il dessert.

La guerra ha contribuito a risolvere problemi identitari. «Bisogna voltare le spalle alla Russia. L’ucraino è quello che combatte per la sua terra, non importa che lingua parla», dice il governatore Kozytsky, che pone altri problemi: far crescere l’economia, combattere la corruzione, ridurre la povertà creando posti di lavoro. Il conflitto nel Donbass non è certo di aiuto ma l’ex ministro dell’Economia ed ex ambasciatore all’Ue Roman Shpek dice che la guerra fa meno danni della corruzione: «La fragilità delle istituzioni e il peso eccessivo degli oligarchi nell’economia e nella politica, sono questi gli ostacoli sulla strada verso l’Europa».