Pilar lo guarda con gli occhi sbarrati. La bocca spalancata, il respiro affannoso. Lui le stringe le mani al collo mentre continua ad insultarla. Lei trema, il volto congelato in una smorfia di dolore. Poi lo sguardo si sposta verso il basso: come un animale terrorizzato ha orinato per terra. Antonio si stacca dal suo collo, se ne va. Lei con i pugni ancora chiusi si accascia a terra, piangendo. È una scena – terribile – del film spagnolo Ti do i miei occhi (Te doy mis ojos) che racconta di violenza domestica. E spiega bene – come affermano le esperte che abbiamo interrogato sul tema – come la violenza sia un percorso, mai un raptus isolato che arriva in un momento di pazzia momentanea. È un tremendo viaggio con degli esordi «leggeri» che la vittima può leggere come «cadute» da cui poi ci si rialza, sbavature che non impediscono la vita insieme. Quelle che sono evidenti mancanze di rispetto vengono in un certo senso accettate. Perché tante non se ne vanno subito? I motivi possono essere diversi: una concezione sbagliata dell’amore, la paura di perdere i figli, le pressioni dei parenti, le difficoltà economiche o sociali, la speranza di «redimere» l’uomo… Fatto sta che la caduta continua, ed è sempre più rovinosa. Dalle cattive parole si passa ai fatti. Prima una sberla, poi i calci. Tanti lividi, tanto dolore. Qualcuna alla fine muore (magari quando aveva deciso di lasciare il suo aguzzino), e mica solo in Italia.
In Svizzera l’anno scorso 15 donne sono state uccise dal compagno o dall’ex. Lo dice l’Ufficio federale di statistica (www.bfs.admin.ch). Mentre in Ticino la polizia interviene in media tre volte al giorno per situazioni di violenza domestica. Nella maggioranza dei casi, manco a dirlo, le vittime sono donne. E si tratta solo della punta dell’iceberg, affermano gli esperti. Uno studio commissionato dall’Ufficio federale di giustizia stima che solo il 20 per cento delle vicende di violenza domestica viene notificato alle forze dell’ordine.
Ma perché tutto questo odio? Le donne, fino a non molto tempo fa, non erano considerate granché. A dirla tutta nemmeno oggi la semplice idea di parità è completamente accettata. Il famoso detto «tra moglie e marito non mettere il dito» è ancora presente nelle coscienze. L’Ufficio federale per l’uguaglianza tra donna e uomo, dal canto suo, spiega: la violenza sulle donne ha profonde radici nella disparità tra i sessi presente all’interno della società ed è perpetuata da una cultura che tollera e giustifica la violenza di genere e si rifiuta di riconoscerla come un problema. Una cultura sostenuta anche dal linguaggio e dalle immagini trasmesse dai media.
Quei media che si sono accaniti sul caso tremendo di Giulia Tramontano. Gli stessi che invece hanno raccontato di sfuggita l’uccisione a Roma, a inizio giugno, della poliziotta Pier Paola Romano per mano del collega con cui aveva avuto una relazione, il quale si è poi suicidato. Ancor meno si sono soffermati sulla tragedia avvenuta in maggio a Savona (forse perché i protagonisti erano di origine straniera?): una 28.enne è stata freddata in una piazza da un uomo che aveva appena lasciato… Muoiono ammazzate giovani e anziane, svizzere, italiane e di tutte le altre nazionalità, donne incinte o meno, ricche e povere. Nessuna è immune. Il modo di raccontare i fatti di tv, radio e giornali conta, dicevamo. Esiste un problema nella narrazione quotidiana della violenza di genere che crea ulteriore violenza verso le donne (ne avevamo parlato con l’esperta Flavia Brevi). Ad esempio in un caso di femminicidio si mette l’accento su come era vestita la vittima, su quanto aveva bevuto o sul fatto di essere uscita da sola. Così facendo si sposta l’attenzione dal crimine ai comportamenti della donna, come se ne avesse in parte la responsabilità. Oppure si usano ancora espressioni quali «vendetta passionale», «raptus di gelosia»… Ma non c’è nulla di romantico nella violenza. Proprio nulla.
Cosa si può fare? Ce lo aveva detto Sonny Buletti, che ha lavorato una vita nell’ambito del sostegno alle donne vittime di violenza domestica in Ticino: «È necessario un deciso cambiamento di mentalità. Bisogna insegnare ai bambini come ci si relaziona all’altro sesso e come si risolvono i conflitti. O, almeno, insegnare alle donne a difendersi». Aggiungiamo: bisogna insegnare agli uomini adulti a tenere a bada i bassi istinti, a farsi curare se non ci riescono. Inoltre è necessario che le violenze di genere siano represse in maniera più dura. Infine programmi di prevenzione a largo spettro dovrebbero essere implementati non solo nelle scuole ma anche in altri ambienti, ad esempio i luoghi di lavoro.