Glasnost a Seul

Corea del Sud – Con l’incriminazione dell’ex presidente Park Geun-hye, è iniziato il processo di catarsi della storia del Paese
/ 24.04.2017
di Giulia Pompili

La psicosi collettiva della Guerra nucleare globale, minacciata dalla Corea del nord e dall’Amministrazione Trump, sembra non colpire più di tanto l’unico Paese che rischierebbe la sua stessa esistenza nel caso di un bombardamento americano contro la dinastia dei Kim: la Corea del sud. Da una parte, da sessant’anni Seul vive la minaccia costante nordcoreana e conosce intimamente il pericolo dato da un incidente, nel caso in cui si trasformasse in un conflitto. 

Ma c’è anche un altro motivo che finora ha evitato il diffondersi della psicosi della guerra imminente. Da più di sei mesi, il Paese – diviso dalla Corea del nord dal 38° parallelo e formalmente ancora in guerra con i cugini di Pyongyang (nel ’53 fu firmato soltanto un armistizio) – vive in una epocale fase di evoluzione democratica: i sudcoreani hanno appena ricominciato a ricostruire la propria democrazia, e difficilmente vorranno sacrificarla per un tweet aggressivo di Trump. È in questo contesto che il 24 marzo scorso il relitto del traghetto Sewol è stato finalmente issato sopra la superficie del mare, dopo più di mille giorni sott’acqua. Quel momento, per la Corea del sud, è stato uno dei momenti più liberatori, sconvolgenti e catartici della propria storia moderna. Perché c’è una simbologia che vive dentro a quel traghetto, un disastro che ha raccolto attorno a sé le vittime della tragedia insieme con l’intera società civile coreana, trasformandole poi in un’unica voce di protesta: la forza di un’intera nazione. 

Ed è indicativo che il traghetto affondato sia stato portato alla luce una settimana prima del giorno in cui l’ex presidente sudcoreana, Park Geun-hye, è stata condotta nel carcere di Seul, in attesa di giudizio. Park ha dovuto lasciare la Casa Blu – il sontuoso palazzo della presidenza sudcoreana, dove aveva vissuto anche tra il 1963 e il 1979, quando il padre Park Chung-hee era presidente – e si è dovuta trasferire in una cella di pochi metri quadrati, con pasti da un euro al giorno. 

Il Sewol si è inabissato il 16 aprile del 2014 al largo dell’isola Jindo, in circostanze ancora da chiarire. A bordo c’erano 476 persone. 325 di loro erano studenti del liceo Danwon della città di Ansan, che stavano partendo per una gita scolastica. Tutti ricordano le immagini di quei giorni: i videomessaggi sui telefonini di qualcuno dei ragazzi, recuperati dalla Guardia costiera, dove avevano registrato i loro addii per gli amici, per i genitori. Il comandante Lee Joon-seok immortalato mentre scappa prima di tutti, in mutande, dalla nave che affonda – condannato un anno dopo all’ergastolo per omicidio colposo. E l’equipaggio che nel frattempo, attraverso l’interfono, ordina ai ragazzi di restare chiusi nelle loro cabine, dritti verso la morte certa. Da più di mille giorni i cittadini sudcoreani cercano la verità su quel disastro, soprattutto sui nove corpi dei ragazzi che ancora risultano dispersi. Da più di mille giorni, al centro della capitale Seul, in piazza Gwanghwamun, il luogo delle proteste che hanno condotto all’impeachment dell’ex presidente Park Geun-hye, un’istallazione permanente tenuta in vita dai volontari ricorda i volti delle 325 vittime del naufragio. Oggi, accanto a quei volti, ci sono anche i cartelli che chiedono al presidente Donald Trump di evitare una inutile guerra con il Nord.

Le operazioni di recupero del traghetto Sewol sono state trasmesse in diretta televisiva, e anche l’arrivo del relitto al porto di Mokpo, dove la commissione del Ministero dei trasporti ha iniziato una nuova indagine sui motivi del disastro. Nell’aprile del 2014 le autorità, ma soprattutto la politica, furono ritenuti responsabili della crisi di informazioni e della poca trasparenza sui fatti accaduti in mare. E più i giorni passavano, più il mistero s’infittiva: Yoo Byung-eun, proprietario della Chonghaejin Marine, armatore del Sewol, una figura già nota alla polizia per essere stato leader di una pericolosa setta religiosa e un oscuro businessman sudcoreano, divenne l’uomo più ricercato di Corea.

Il suo corpo fu trovato senza vita due mesi dopo, in un remoto luogo di campagna. Il primo ministro Chung Hong-won fu costretto alle dimissioni. E poi quelle famose sette ore, subito dopo l’incidente, durante le quali la presidente Park Geun-hye – eletta con oltre il 50 per cento dei voti alle elezioni del 2012 – era risultata irraggiungibile. È qui che il disastro del Sewol e la presidenza di Park si incrociano, e l’uno diviene il simbolo dell’altra, ed entrambi segnano la trasformazione della Corea del sud. Nell’ottobre scorso, quando venne fuori la figura della sua confidente e sciamana Choi Soon-sil – oggi in carcere per corruzione – tutti pensarono a lei, al suo ruolo di Rasputin e di suggeritrice della presidente.

Sulla stampa iniziò a circolare la voce che Choi e Park, quel 16 aprile del 2014, stessero partecipando a un rito per Choi Tae-min, il padre di Choi, che a sua volta era stato il mentore e consigliere dell’ex presidente Park Chung-hee. Su internet si diffusero molte leggende, come quella del Sewol come «sacrificio umano» voluto da Park e Choi per commemorare il vecchio sciamano. Magia, esoterismo, ma anche ben più materiali interessi economici: sono questi i motivi per cui i giudici hanno deciso di arrestare Choi Soon-sil, e per cui i cittadini sudcoreani hanno chiesto al Parlamento di votare per l’impeachment di Park Geun-hye. Le elezioni per la presidenza si terranno il 9 maggio prossimo, e chiunque vincerà, tra i democratici o ancora i conservatori, saprà di dover guidare una nuova Corea del sud, che è riuscita a sconfiggere i suoi fantasmi con la sola forza dei cittadini.