Sono terre di berberi, gli abitanti originari prima degli invasori arabi, e oggi ridotti a comparse sui set turistici negli accampamenti al limitare del deserto, tende tecnologiche se non di lusso per ospitare notti di sabbia agitata dai venti caldi così da riempire i canali social di selfie di simulata vita nomade. A cavallo, nei tradizionali costumi, i berberi compaiono dal buio, lunghi capelli mori e occhi azzurri che ammaliano le visitatrici occidentali, quindi smontano di sella, si lasciano fotografare faticando per fierezza a sorridere, infine risalgono sulle cavalcature e galoppano ingoiati dal deserto.
Infiniti spazi vuoti alternati a montagne maestose e un’urbanizzazione di cittadine polverose e villaggi così ancorati a un tempo lontano da non figurare nelle cartine. Non quelle dei telefonini, sia mai: ma perfino quelle delle mappe cartacee. In fondo quest’entroterra del Marocco è un po’ retrò, dotato d’un suo fascino se vogliamo selvaggio e insieme vintage, fra scassate Fiat degli anni Sessanta, motorette da dopoguerra, bimbi di ritorno da scuola abbracciati alle mamme a dorso di mulo, infilate di baracche e case di pietra laddove gli unici investimenti delle comunità sono riservati alle madrase, le scuole coraniche, scintillanti nelle variopinte colorazioni. Non c’è più nulla di turistico in questa geografia che coincide con la regione di Béni Mellal-Khénifra, e lo si capisce anche dalle pattuglie della gendarmeria reale inviate a trascorrere le ore di servizio – in Marocco nulla succede, esigua la criminalità, basso il tasso di omicidi – nei pattugliamenti agli assolati incroci: i militari parlano arabo, per miracolo un verbo di francese, di spagnolo. E d’italiano. Sicché nel nostro personalissimo caso, quando invece si finisce in isolati Paesi che quasi l’italiano l’hanno addirittura come una lingua madre, constatiamo d’aver trovato i posti che cercavamo.
I posti d’origine dei «legionari della droga», i componenti delle bande padrone dei boschi al confine con il Canton Ticino: Varese, Como, il Piemonte. Avevano invero esordito come scappati di casa battezzando pinete e sentieri, colline e montagne, armati al massimo di coltellacci da cucina, nelle tasche dosi di hashish da piazzare. In fondo, ci spiegano qui non senza orgoglio per entrambi i settori di guadagno, in principio erano stati i venditori di tappeti, i «vu cumprà», che piazzavano all’estero i prodotti dell’artigianato locale, e di recente sono stati i pusher, ché il Marocco si conferma primo produttore mondiale di resina da cannabis come documentato da plurimi dossier governativi stranieri. Gli americani della DEA, il Dipartimento anti-droga, hanno una strategica sede a Rabat, la capitale in vorace trasformazione edilizia; altri organismi europei poggiano su analisti locali che compilano periodici e allarmanti bollettini. Hashish, ettari ed ettari di hashish (l’ultimo report registra un’area complessiva pari all’intera superficie di Milano, immaginatevi il paesaggio) che però spariscono nella narrazione ufficiale del Marocco. Questa droga «non esiste»; vietato introdurre il discorso anche negli incontri istituzionali con rappresentanti esteri, si rischiano incidenti diplomatici.
Insieme all’hashish, le bande dei boschi vendono cocaina ed eroina. Legge del mercato: i tossicodipendenti italiani, e quelli ticinesi in trasferta, non pochi, anzi, questo chiedono. E loro, i pusher, età media sui vent’anni, obbediscono alle richieste. Hanno conquistato terre vergini: le cosche della ’ndrangheta come le gang albanesi viaggiano su livelli maggiori, di narcotraffico intercontinentale, e lasciano i marocchini ai loro introiti, certo sostanziosi, e insieme alle loro progressive faide che ne confermano la scarsa affidabilità per eventuali salti di livello. Le assenze di una struttura criminale verticistica nonché di famiglie dominanti temute dalle altre determinano costellazioni di gruppi in perenne tensione. In Marocco, ci ripetono, una delle forze del popolo è la fratellanza, che nel nome della mutua solidarietà rende unica la diaspora nei Continenti – cinque milioni di emigranti – e garantisce soccorso, prestiti, logistica. Di sicuro resta vero, ma allora i boschi hanno alterato le anime rendendole nere.
Gli spacciatori si accoltellano, si sparano addosso, ammazzano. Ubriachi di ferocia, consapevoli d’aver sconfinato in libertà – oppure impunità della giustizia? – e in dotazioni di arsenali e forsennato conteggio di banconote, si detestano, hanno smesso di collaborare, campano di tradimenti e pure soffiate agli sbirri purché l’avversario, magari fino a ieri alleato, perda il suo pezzo d’impero e cada, e rovini, e sparisca. I censimenti sono ballerini, sottoposti a perpetue modifiche, ma secondo carabinieri e poliziotti, esclusivamente nella provincia di Varese le aree controllate dai pusher sono sessanta. Le plurime inchieste specie della Procura di Busto Arsizio proprio contro le gang della droga forniscono ulteriore conferma della profonda trasformazione del fenomeno. Un fenomeno inedito.
E ammaliante: gli ultimi spacciatori vengono da Oued Zem, 90mila abitanti dei quali un terzo minore di 15 anni; analfabetismo, dispersione scolastica, l’ambizione per una ricchezza facile e immediata; ovvero parte il primo, trascorre mesi a spacciare, fa i soldi, torna, esibisce, innesca gelosie, sublima le voglie d’emulazione degli amici nati nello stesso quartiere, e questi a loro volta tentano la sorte. Che mai come in questi mesi significa anche cadere in arresto, consumare i giorni in galera o, peggio, subire torture, venir massacrati a mani nude e buttati cadaveri come immondizia ai bordi d’una provinciale.
È successo a un 24enne che aveva osato rubare alla sua banda 30mila euro di droga e contanti; succederà ancora, ormai è troppo sbandata la progressione criminale per ipotizzare una naturale sosta, e mancano accordi bilaterali tra Italia e Marocco, inutile ancorarsi a una possibile cooperazione per rafforzare il contrasto. Sicché in questa visuale nella regione di Béni Mellal-Khénifra, in un panorama di bimbi scalzi che giocano con palloni sgonfi su radure secche, di ossuti e zoppi cani randagi, di donne vistosamente preoccupate anche soltanto di dialogare con uno straniero, ci mettiamo in ascolto, forti d’indizi, di tracce, di preziose fonti; lontano dai circuiti del turismo, in solitaria e certo pericolosa esplorazione.
(Prima puntata, continua...)