L’unica, per sopravvivere, è la fuga in avanti: Boris Johnson ha incassato talmente tante sconfitte in soli due mesi che tocca darsi una spolverata e fingere che fossero tutte vittorie. Cercando di dare il più possibile la colpa dei suoi fallimenti agli altri, possibilmente stranieri, per portare la sua carriera in salvo verso una campagna elettorale che, complice l’opposizione rachitica di Jeremy Corbyn, lo vedrebbe possibile vincitore nonostante i disastri combinati. «Facciamo la Brexit», è lo slogan sbrigativo con il quale ha conquistato una platea dei conservatori decisamente amica a Manchester prima di presentare la sua idea di uscita dalla Ue in un documento di sette pagine, presentato come un «compromesso», «costruttivo e ragionevole», inviato al presidente della Commissione Jean-Claude Juncker.
Una super-hard Brexit con un’idea in realtà irricevibile per risolvere la questione irlandese: tenere l’Irlanda del Nord fuori dall’unione doganale ma allineata con le regole del mercato interno per quattro anni, rinnovabili con il consenso dell’assemblea di Stormont, e spostare i controlli dalla frontiera al luogo d’origine delle merci per dare una parvenza di rispetto degli accordi del Venerdì Santo ed evitare il confine fisico. A Bruxelles il testo è stato accolto con una certa freddezza, mentre Leo Varadkar, il premier irlandese su cui ricade molta della responsabilità per il futuro dell’isola, è stato più deciso nel dire il testo «non è la base di un accordo». Ma d’altra parte Boris lo ha detto chiaramente che per lui l’alternativa resta il no deal, con cui il confine fisico tra le due parti dell’isola sarebbe inevitabile, e spera così di ottenere il più possibile, che sia un accordo accettabile per Westminster o la possibilità di scrollarsi di dosso ogni responsabilità.
Il 31 ottobre il no deal, secondo la legge approvata dai deputati prima della famigerata «proroga» del Parlamento poi revocata dalla durissima sentenza letta con tono fermo e pacato dalla presidente della Corte Suprema Lady Brenda Hale, non potrà esserci perché il premier dovrà chiedere prima il terzo rinvio della Brexit alla Ue. Johnson, che ha soprannominato la legge «l’atto di resa» suscitando un vespaio di polemiche, sta facendo di tutto per trovare un modo per aggirare il testo, perché sa di essere ormai troppo legato alla promessa di uscire entro Halloween costi quel che costi: tra le ipotesi che circolano c’è quella secondo cui sarebbe il capo del civil service a chiedere la proroga, per non costringere il premier a sporcarsi le mani, o la possibilità che Johnson invochi «poteri di emergenza» per aggirare la legge usando come pretesto i disordini dovuti alle manifestazioni di Extinction Rebellion o del People’s Vote.
È improbabile che Johnson si dimetta per non dover presentare la richiesta e lo aiuterebbe solo in parte l’ipotesi che fosse Bruxelles a non concederla. La parola rinvio ormai circola da un po’ negli ambienti diplomatici europei, consapevoli che il tempo stringe e che l’uscita senza accordo potrebbe rafforzare uno di quegli uomini politici che hanno il dono di farsi perdonare tutto, o quasi. I Tories sono al 33% nei sondaggi, contro il 23% dei Labour e il 21% dei LibDem, nonostante le sentenze e gli scandali.
A più di tre anni dal referendum, l’opinione pubblica è esasperata e più polarizzata che mai, il Labour continua a vagheggiare un secondo referendum nel quale non prenderebbe posizione e la leader dei LibDem Jo Swinson, per il fatto di volere la revoca dell’articolo 50 e di rifiutare l’idea di un governo di scopo guidato da Jeremy Corbyn, è bersagliata da violentissimi attacchi online da destra e soprattutto da sinistra, dal sapore misogino e particolarmente inquietanti in un Paese in cui una deputata è stata uccisa poco tempo fa.
Il Paese è davvero spaccato e tutti sperano di poter voltare pagina rispetto a un capitolo così indigesto della storia nazionale. Boris, con l’aiuto del suo spregiudicato consigliere Dominic Cummings e della fidanzata Carrie Symonds, che dietro i vestitini vittoriani esercita un’influenza forte com’è naturale per una che si occupa di comunicazione politica, sta riuscendo a tirare dritto sebbene ci sia una folta parte dell’establishment che lo vorrebbe vedere fuori da Downing Street. Non sono pochi, i nemici di Boris, ma sanno che occorre essere cauti, molto cauti, per non alimentare la sua retorica pre-elettorale di «popolo contro l’elite».
Mentre il «Financial Times» ha chiesto le dimissioni di Johnson all’indomani della sentenza con cui la Corte Suprema definiva «illegale» la sospensione del parlamento per cinque settimane e dopo la conferenza di Manchester suggeriva di rimuovere Johnson «costi quel che costi», è il «Sunday Times» ad aver scelto di attaccare il premier su uno dei suoi punti deboli, ossia il rapporto con le donne. Iniziando con uno scandalo risalente ai tempi in cui Boris era sindaco di Londra e, ancora sposato con l’avvocatessa Marina Wheeler, aveva una relazione con la ex ballerina e modella americana Jennifer Arcuri, imprenditrice del settore tecnologico a cui sono arrivate circa 150mila sterline di fondi pubblici. Non solo: la Arcuri ha partecipato a delle missioni di imprese londinesi all’estero sebbene il suo business non avesse le credenziali necessarie.
Johnson, che frequentava regolarmente l’appartamento di Shoreditch dell’imprenditrice, non aveva mai segnalato il potenziale conflitto d’interessi, tanto che la vicenda è finita al centro di un’indagine della polizia. Accanto al caso più politico della Arcuri, nella sezione «Stile» del giornale della domenica è apparsa una testimonianza di una nota e rispettata giornalista, Charlotte Edwardes, che ha raccontato di essersi ritrovata una mano sulla coscia durante un pranzo con Johnson ai tempi in cui era direttore del magazine conservatore «Spectator». La Edwardes, attuale compagna del famoso giornalista politico Robert Peston, ha aggiunto che anche alla donna seduta dall’altra parte di Johnson era successa la stessa cosa, lasciando pensare che il premier avesse agito contemporaneamente. E sul «Times» quotidiano altre collaboratrici hanno scritto testimonianze per corroborare il racconto della Edwardes, di cui Johnson ha detto di non ricordare nulla.
Se l’atmosfera alla convention di Manchester era decisamente calorosa, non bisogna dimenticare che ci sono 21 deputati Tories cacciati dal partito per aver votato per scongiurare il no deal e che il ricorso presentato alla Corte Suprema era sostenuto anche dall’ex premier John Major, un conservatore che, stando alle cronache, avrebbe mantenuto un rapporto eccellente con Buckingham Palace. Da cui sono arrivate folate gelide dopo la sentenza in cui i giudici accusavano il premier di aver mentito alla regina. Che ora, dopo una nuova breve proroga del parlamento necessaria per ragioni procedurali e per sistemare il trono, illustrerà le nuove priorità del governo in un discorso il 14 ottobre prossimo. Tra poco più di una settimana, ossia tra un’eternità politica in cui tutto può succedere.