Giorni caldi in Venezuela

Crisi – I recenti scontri sono avvenuti appena una settimana dopo l’elezione dei componenti dell’Assemblea costituente voluta da Maduro, il cui obiettivo è riscrivere la costituzione e impedire la sua sconfitta alle prossime elezioni
/ 14.08.2017
di Angela Nocioni

Si avvita in una spirale di violenza la crisi venezuelana, sempre più vicina alla guerra civile. Il regime ha deciso di continuare a marciare dritto, ignorando le proteste interne al chavismo, reprimendo le proteste in strada e continuando a far arrestare i suoi oppositori.

Come spiraglio, forse come segnale di flebile disponibilità a trattare prima di finire schiantato politicamente contro un muro, il presidente Maduro ha consentito di rimandare ai domiciliari, liberandolo dal carcere di Ramo verde (dove è rinchiusa la maggior parte dei detenuti politici) l’oppositore Antonio Ledezma. E ha rinunciato a prove di forza simboliche come sarebbe stato lo sfratto del Parlamento (controllato dall’opposizione) dal Congresso per installare lì al suo posto l’Assemblea costituente disegnata a immagine e somiglianza del regime. Quest’ultima lavorerà nella sede del Ministero egli esteri e in due teatri. Nel pieno del caos istituzionale l’esistenza di due parlamenti nemici e paralleli non aiuta, ma almeno si è evitata l’occasione di nuovi scontri armati che avrebbe offerto uno sfratto forzoso.

Per il resto il presidente venezuelano, ostaggio politicamente di militari e personaggi vari inseriti nel sistema di regime che rischiano la galera per reati soprattutto di contrabbando e riciclaggio internazionale qualora il governo cada e per questo preferiscono vedere il Paese affondare piuttosto che cedere il comando, ignora qualsiasi possibilità di mediazione politica. Nonostante tutto il mondo – a parte i governi di Cuba, Nicaragua e pochi altri – gli abbiano chiesto di far marcia indietro su una Assembla costituente del tutto illegittima e illegale, l’ha fatta insediare.

L’Assemblea è stata convocata per decreto, quando la Costituzione vigente (che è quella chavista, voluta da Hugo Chavez nel 1999 e votata dal popolo venezuelano, per questo molti chavisti sono furiosi con Maduro che la vuole cancellare) prevede che possa essere convocata solo dopo un referendum popolare che approvi l’elezione di un’assemblea con l’esplicito compito di ridisegnare la Costituzione.

Per di più l’azienda informatica che dal 2004 lavora con il governo e che anche questa volta si è occupata del conteggio dei voti elettronici, la società Smartmatic, ha denunciato frodi nel voto al quale Maduro sostiene di aver avuto otto milioni di voti a favore della riforma. Una mano esterna ha inventato un milione di voti che non esistono, ha fatto sapere la Smartmatic.

Quell’Assemblea, secondo le dichiarazioni dei principali leader del governo tra cui il numero due del chavismo, Diosdado Cabello, dovrebbe occuparsi di portare a termine l’operazione di dissolvimento del Parlamento legittimamente eletto dove l’opposizione è maggioranza. Una minima resistenza al regime nelle istituzioni rimane in alcuni rappresentanti della magistratura. Ma i principali magistrati antichavisti, conosciuti come tali, nel timore di finire arrestati, stanno chiedendo asilo in queste ore nelle sedi diplomatiche di paesi esteri.

 Maduro continua ad aggrapparsi all’appoggio di chi ha grossi investimenti in Venezuela, innanzitutto Russia e Cina, che certo non si possono permettere grosse alzate di sopracciglio sulla limpidezza dei processi democratici a casa d’altri.

Ignorato anche il comunicato della Santa sede a rinunciare ad instaurare l’Assemblea, comunicato arrivato tardissimo, quando ormai i deputati erano pronti a votare: «La Santa Sede esprime nuovamente la sua profonda preoccupazione per la radicalizzazione e l’aggravamento della crisi nella Repubblica Bolivariana del Venezuela, con l’aumento dei morti, dei feriti e dei detenuti». E questo è quanto chiedeva la Segreteria di Stato, cioè il capo della diplomazia vaticana, Parolin, che in Venezuela è stato a lungo nunzio apostolico: «La Santa Sede chiede a tutti gli attori politici, ed in particolare al Governo, che venga assicurato il pieno rispetto dei diritti umani e delle libertà fondamentali, nonché della vigente Costituzione; si evitino o si sospendano le iniziative in corso come la nuova Costituente che, anziché favorire la riconciliazione e la pace, fomentano un clima di tensione e di scontro e ipotecano il futuro; si creino le condizioni per una soluzione negoziata in linea con le indicazioni espresse nella lettera della Segreteria di Stato tenendo presenti le gravi sofferenze del popolo per le difficoltà a procurarsi il cibo e le medicine, e per la mancanza di sicurezza».

«La Santa Sede rivolge, infine, un accorato appello all’intera società affinché venga scongiurata ogni forma di violenza, invitando, in particolare, le Forze di sicurezza ad astenersi dall’uso eccessivo e sproporzionato della forza» raccomandava il Vaticano. Inascoltato.

Intanto all’alba di domenica 5 agosto un tentativo di rivolta militare, limitato alla sola città di Valencia, è stato stroncato sul nascere dalle forze armate «bolivariane», e molti civili sono scesi in strada formando barricate e sassaiole contro i blindati dell’esercito. Non è una bella notizia per Maduro. Valencia è il terzo polo urbano del Paese, ha due milioni di abitanti. Se una insurrezione in armi di una ventina di ufficiali al seguito di un capitano antichavista ritirato viene accolta con giubilo dalla popolazione civile, vuol dire per il presidente, già assediato dalla guerra per bande dentro al governo, che la sua fine politica potrebbe non essere lontana.

Gli scontri sono durati poche ore, si sono conclusi con due morti e una decina di arresti tra i militari che, guidati dall’ex capitano della Guardia nazionale, Juan Caguaripano, avevano tentato senza successo di prendere il controllo del forte di Paramacay, la più importante base di blindati del Paese.

L’ex capitano Caguaripano è stato espulso dall’esercito nel 2014. Da allora è latitante con l’accusa di tradimento e ribellione per aver partecipato sia al movimento d’opposizione La salida (la via d’uscita), che tempo fa tentò invano di dare la spallata al regime, sia a un tentato golpe, dallo stesso esito, conosciuto come il Golpe azul, il golpe azzurro, per il colore della divisa dei pochi militari che vi parteciparono, tutti al comando di Oswaldo Hernández Sánchez, generale di brigata dell’aviazione.

Nelle prime ore del mattino del 5 agosto, mentre si sentivano spari provenire dal forte di Valencia, si è temuto un autogolpe. Niente di più utile per il regime, per giustificare di fronte alla pressione internazionale un ulteriore restringimento delle già esili libertà democratiche, che poter sbandierare un (finto) tentativo di colpo di Stato. Questa ipotesi ha perso quota con la diffusione di un video, fatto circolare durante l’assalto, in cui l’ex capitano, circondato da ufficiali, spiega i suoi intenti e sottolinea che «non si tratta di un golpe, ma di una ribellione civico-militare per porre fine al regime di Maduro».

Al di là dei toni da operetta, del numero esiguo dei partecipanti alla maldestra operazione e della goffa imitazione da parte del capitano del discorso con cui nel 1992 l’allora tenente colonnello Hugo Chàvez si presentò con un video ai venezuelani come il loro possibile salvatore rivendicando di essere il responsabile di un fallito golpe (il famoso discorso del «Por ahora» desistiamo, che fu il debutto mediatico del futuro presiente) il semplice fatto che un gruppo di militari anti-Maduro tenti di prendere la situazione in mano e venga seguito da una sollevazione di civili è segno che il regime non ha solo amici dentro le Forze armate. Maduro lo sa ed è per questo che in strada a reprimere le manifestazioni contro di lui manda sempre la polizia, mai l’esercito. Non a caso l’opposizione – che non ha una guida politica unitaria e nonostante sia formalmente raccolta in un unico tavolo, il Mud, resta un condominio litigioso in cui ogni dirigente parla per sé senza riuscire a rappresentare una maggioranza interna – ogni volta che riesce a stendere un comunicato, ogni volta che esorta alla resistenza contro Maduro, rivolge un appello alle forze armate, e non alla polizia, affinché si schierino apertamente contro il regime. Finora senza successo.

Oggi un dollaro vale 20’000 bolìvares venezuelani, il doppio di quindici giorni fa. Gli stipendi sono in bolìvares, quindi il loro valore reale si è dimezzato in due settimane. Ciò costringe Maduro o all’uso della forza e quindi al suicidio politico o alla mediazione. L’economia che sprofonda, la miseria che avanza e presto porterà tutti in strada a protestare non per l’assenza di libertà ma per la fame: sono questi gli unici problemi irrisolvibili per Maduro. Che poi sono l’eterno problema di tutti i paesi socialisti: il socialismo prevede un modello economico che non crea ricchezza e non funziona. Finché esiste l’abbondanza di riserve di denaro fresco, si può evitare di affrontarlo. Quando finiscono, cominica a suonare un’altra musica. Il popolo, il famoso popolo tanto osannato dalla retorica di governo, si rivolta verso il regime. E prima ancora di chiedere libertà, chiede pane.