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Gestire le crisi, la sfida degli Stati

Gli anni seguiti alla crisi finanziaria del 2008 hanno evidenziato la vulnerabilità degli apparati pubblici di fronte a turbolenze finanziarie, ma non hanno ancora sortito un crisis management efficace e coordinato
/ 03.07.2017
di Edoardo Beretta

Se le imprese da sempre fanno ricorso al crisis management nel contrasto di episodi inattesi più disparati fra cui incidenti, sabotaggi, scandali o altro, si potrebbe di primo acchito affermare altrettanto nel caso degli Stati stessi. Il concetto di diplomazia con le sue molteplici figure di riferimento rappresenta, sicuramente, una modalità di gestione delle crisi volta ad una risoluzione non conflittuale di esse. Tuttavia, sono stati i grandi episodi di panico finanziario ad avere aperto gli occhi ai gestori statali sull’importanza di un management delle crisi economiche altrettanto coordinato: il primo grande esempio risale, presumibilmente, alla Grande Depressione (dal 1929 fino ai primi Anni Trenta). Ma, più recentemente, è stata la crisi economico-finanziaria globale (scatenatasi nel 2008 dopo il fallimento della Lehman Brothers), con la sua inaspettata virulenza e pandemicità ad avere catapultato la tematica del crisis management anche a livello statale. Perché mai non citare, ad esempio, gli shock petroliferi del 1973, 1979 e 1980? La risposta più naturale è che essi poggiavano su avvenimenti politici prima ancora che economici e, quindi, in parte risolvibili mediante il ricorso al più noto strumentario diplomatico. 

Il fatto che i grandi sconvolgimenti economici della storia recente in qualità di causa (e non di effetto) siano avvenimenti non troppo frequenti, se da un lato costituisce sì una fortuna, dall’altro è all’origine di un mancato apprendimento da parte dei policymaker. Per la serie: una volta superata alla bell’e meglio la tempesta, si preferisce tornare − come se nulla fosse avvenuto − al motto di sempre, cioè business as usual. È avvenuto così anche per la crisi economico-finanziaria globale con le sue tante ripercussioni sul mercato immobiliare, bancario, dei titoli di debito pubblico ecc., di cui non si può certo dire di avere lasciato un’impronta decisiva per cambiamenti strutturali in termini di policy. Infatti, sono state soprattutto le banche centrali delle principali Nazioni mondiali − dalla FED alla BCE, dalla BNS alla Banca del Giappone oltre che la Banca d’Inghilterra − ad avere assunto il ruolo di vero e proprio pronto soccorso nel somministrare cure da cavallo, tanto efficaci nell’abbassare la febbre ma molto meno nel curarne la causa. Quindi, dapprima con vigorosi tagli dei tassi di interesse per facilitare la ripresa tramite la leva del credito − la rapidità delle decisioni della banca centrale americana ricorda un vero e proprio atterraggio di emergenza − ed, in seguito, con massicci programmi di acquisto di titoli di debito pubblico (successivamente, anche privato) per arginare la spirale recessiva, che più volte è stata accostata alla sopra citata Grande Depressione. 

Certamente, l’intervento degli Stati nazionali si è potuto caratterizzare per minore celerità decisionale in quanto le loro politiche fiscali e di bilancio (condizionate dalla presenza o meno di margini di azione fra tassazione o debito pubblico già troppo elevati) hanno necessitato di tempo e consenso politico, che spesso riescono a trovare nei confronti di Paesi esteri, ma molto meno su questioni interne di approccio economico. In altre parole, se di fronte a quello che si considera essere il «nemico comune» politico fuori dei propri confini si coagula un vasto supporto interno, più dialettica risulta essere invece la ricerca di una ricetta condivisa per la soluzione di problemi economici. La situazione all’interno di Eurozona e, più in generale, Unione Europea è stata inficiata dal fatto che gli accordi continentali soffrono fra l’altro di un problema strutturale di verbal discipline (come denominato dall’ex Presidente BCE Jean-Claude Trichet): infatti, la presenza di molteplici attori politico-istituzionali fa sì che i contrasti interni (manifestati anche pubblicamente a mo’ di «fuoco amico») invalidino molti tentativi di azioni coordinate, credibili e tempestive in situazioni di estrema necessità economica. Ecco che la crisi del debito europeo con le sue tante sfaccettature è stata soprattutto affrontata in molteplici e spesso inconcludenti summit di emergenza perdurante, questi ultimi già dopo poco tempo spesso superati dall’involuzione stessa dello stato di salute comunitario. La lezione, che ci si augura che gli apparati statali abbiano tratto da quanto avvenuto − il beneficio d’inventario è d’obbligo a fronte delle considerazioni di cui sopra −, è che si dovrà sviluppare sempre più un crisis management adeguato ed attualizzato anche in ambito extra-privato. È l’interconnessione economico-finanziaria globale a porre il problema, poiché, se con essa aumentano le reciproche opportunità commerciali, il rischio di effetti domino è ancor più endemico. Beninteso: di questa interconnessione globale si potrebbe utopisticamente fare anche a meno, sempre che le politiche economiche messe in campo siano durevoli ed efficaci. Qualora non lo fossero (e così pare), il resto sarebbe storia − da non dimenticare da un lato, da riscriverne il copione in vista di episodi futuri dall’altro.