Germania in totale confusione

Berlino non è più il punto di Archimede di quella che una volta appariva la gloriosa architettura europea, ecco perché
/ 22.08.2022
di Lucio Caracciolo

Storia universale ricorda che quando Germania deraglia lo fa alla grande. Questa Germania dai confini inediti, pacificata pronipote di due grandiosi deragliamenti (1914-18 e 1939-45), sedata dall’impero americano allargato all’Europa occidentale poi semitotale, portabandiera dell’europeismo ideale declinato in nazionalismo economico, non vuole né può immetterci nella terza guerra mondiale. Non lo vuole perché tre generazioni dopo la fine di Hitler i tedeschi sono uno dei popoli più pacifici al mondo. Non lo può perché la scala della potenza non è più quella della prima metà del Novecento, ultimo catastrofico urrà degli imperi europei, ma si muove alle altezze di Stati Uniti d’America, Cina e Russia. Dal centro alla semiperiferia.

Nella crisi mondiale – la Guerra grande descritta dalla rivista di geopolitica «Limes» – squadernata dall’invasione russa dell’Ucraina, eccitata dalla rivalità sino-americana e dal riaffacciarsi di imperi antichi come Turchia e Giappone, la Germania incarna al massimo grado il rango di noi europei. Poste in gioco più che giocatori. Al massimo, più o meno utili satelliti del fronte occidentale guidato dall’America, sull’esempio di Regno Unito e Polonia. Più di altri europei i tedeschi sono spiazzati. La riscrittura della storia e della pedagogia nazionale avvenuta nel dopoguerra, con la penna in mano agli americani e ai «vincitori» occidentali, inglesi e francesi, oppure ai sovietici, ammoniva che il loro orizzonte non poteva che essere di pace. Ciascuna delle due Germanie, province-vetrina dei due imperi vincitori che nella guerra fredda avevano stabilito un equilibrio pacifico rievocante il cuius regio eius religio della pace di Augusta (1555), si considerava a suo modo portabandiera di un’Europa pacificata. Consapevoli entrambe che della terza guerra mondiale sarebbero state le prime vittime.

La Germania ora è una, per dissoluzione della Ddr nella Bundesrepublik, ma l’anelito pacifista resta religione di Stato. Al punto d’aver espunto la guerra dall’orizzonte del possibile. Di credere che l’Unione europea sia isola di pace eterna, qualunque cosa vi accada attorno. Il dopo-24 febbraio incrina tanta certezza. La guerra batte alle porte della Germania. Come nelle due prime guerre mondiali, l’incendio scoppia nelle Bloodlands, la sfortunata Zwischeneuropa tra Mar Baltico e Mar Nero, in mezzo ai colossi russo e tedesco, sia pure oggi ridotti a dimensioni imparagonabili con quelli guglielmino e zarista, nazista e sovietico. Sorpresa, la Germania ha immediatamente «reagito» con sovrappiù di retorica. Il ruggito di Scholz – «Zeitenwende!», svolta epocale – suona più motto apotropaico che programma d’emergenza. Ci vorrà tempo prima che a Berlino come nelle altre capitali dell’Europa centro-occidentale si prendano le misure alla Guerra grande e si provveda a contromisure efficaci, non solo retoriche. Tutti i pilastri su cui la Repubblica federale di Germania ha poggiato la rinascita post-bellica vacillano.

Quello strategico, che ha fatto della Bundesrepublik l’epicentro della Nato, con la tuttora massima concentrazione di basi, armi e militari americani in Europa – l’altra faccia della permanente sfiducia di Washington nell’affidabilità di Berlino, espressa nel terzo imperativo del Patto atlantico («germans down», dopo «americans in» e «russians out») – oggi doppiamente intaccata. Anzitutto perché questa Germania si è confermata tutt’altro che docile seguace dell’America, stavolta però con la guerra alle frontiere. Poi perché la linea del fronte non è più l’Elba ma l’istmo d’Europa compreso fra i paesi baltici e il delta del Danubio, sicché l’asse Svezia-Finlandia/Romania con al centro la Polonia assurge a spina dorsale dell’Alleanza atlantica.

Quello economico, che vedeva la Germania al centro del mercato europeo, supercampione mercantilista della globalizzazione, che nell’Eurozona fungeva da regolatore degli scambi, esportando prodotti di qualità e importando liquidità. Fino a disseccare i vicini mercati continentali, il francese e l’italiano su tutti, per legarsi vitalmente alla Cina, nel frattempo involuta a nemesi della superpotenza protettrice a stelle e strisce. Così da soffrire più di altri l’accorciamento delle filiere, la crisi dei commerci, insomma la deglobalizzazione in atto. Mentre il motore industriale batte in testa perché si scopre (sic) dipendente dal fornitore energetico russo, contro il quale gli americani conducono campagna bellica non troppo indiretta in Ucraina.

Quello ideale, sostitutivo della realtà geopolitica, per cui Germania poteva vestire del gialloblù comunitario la legittima difesa dei propri interessi nazionali. Credendo forse davvero che, alla fine della storia, l’Unione europea sia omofonica federazione di Stati fratelli intenti a sciogliervisi dentro, ubriachi di passione europeista. La Germania di questa estate è in totale confusione. Deve rimediare al volo alla contemporanea crisi delle sue certezze. Di sicuro non è più il punto di Archimede di quella che una volta appariva la gloriosa architettura europea. Edificio da bel tempo. Arduo ristrutturarlo impermeabile alla tempesta.