Francia, tutto possibile al primo turno

Presidenziali – Elettori teoricamente agli antipodi si stanno rivelando molto «porosi», cioè passano da una parte all’altra senza una logica prevedibile e questo rende difficile fare previsioni anche di fronte a una contesa elettorale in cui gli schieramenti sono tanto polarizzati
/ 18.04.2017
di Paola Peduzzi

Gli indecisi, nel voto presidenziale in Francia, sono il 40 per cento degli elettori e questo dato sta facendo salire l’ansia ai commentatori, che ripetono ossessivamente: un’incertezza così non c’era mai stata. Sulle «prime volte» di questi anni burrascosi ci sarebbe da scrivere trattati, ma certo è abbastanza bizzarro che, in una contesa elettorale in cui gli schieramenti sono tanto polarizzati, quasi metà degli elettori si ritrovi nell’indecisione. Forse manca la convinzione, e la campagna elettorale è stata un pochino folle e un pochino scadente, o forse ancora una volta i sondaggi restituiscono un’immagine falsata dei sentimenti della Francia. Non è dato saperlo, non ora che mancano pochi giorni al primo turno del voto del 23 aprile, ma quel che si sa è che ci sono quattro candidati tra il 20 e il 26 per cento dei consensi, e che il margine d’errore delle rilevazioni potrebbe diventare ancora una volta decisivo.

Ora tutti gli scenari sono possibili, combinazioni varie del risultato ottenuto da François Fillon, leader dei Républicains, Marine Le Pen, leader del Front national, Emmanuel Macron, leader di En Marche! e Jean-Luc Mélenchon, leader di France insoumise. Se fino a poco fa, la corsa sembrava segnata dallo scontro tra la Le Pen e Macron, che sono in effetti quanto di più distante ideologicamente ed elettoralmente si possa immaginare – si pensi soltanto all’Europa: lei vuole un referendum per rincorrere la «Frexit», lui s’avvolge nella bandiera europea appena ne ha l’occasione –, ora la dinamica si è complicata. L’elettorato di destra tradizionale, i fillionisti (che pure non amano essere chiamati così, visti gli scandali e la scarsa credibilità del loro candidato), ripetono ai giornalisti che «quando si è di destra si vota a destra, il proprio partito», indicano le loro magliette blu e bianca (hanno tutti un’età piuttosto avanzata: non ci sono giovani ai comizi e ai banchetti di Fillon) e incitano il loro partito a crederci. Così ora ha preso piede l’idea che i Républicains siano stati sottovalutati: l’unico partito tradizionale rimasto in corsa è anche quello che ha più chance di fare bene alle legislative di giugno e questo senso di sicurezza, pur nella fragilità della figura di Fillon, rende ancora plausibile la speranza.

Molti intellettuali conservatori parigini sostengono da tempo che no, non c’è riscatto per Fillon, anche se nessuno s’aspettava né lo scandalo degli stipendi parlamentari alla famiglia né il suo esoso desiderio di abiti di lusso: nella dimensione più filosofica della politica, Fillon non rappresenta affatto il suo elettorato. Ma si sa che poi, nel giorno in cui ci si incammina verso il seggio, conta poco la filosofia, contano semmai l’appartenenza e il messaggio da recapitare, e allora se l’orgoglio gollista è davvero una cosa seria, con tutta probabilità i Républicains avranno qualche carta in più da giocare.

Al momento però, nonostante la resilienza dell’elettorato filloniano, l’insidia arriva dall’ultimo arrivato, il «comunista» Mélenchon, che nel giro di pochi giorni è diventato il bersaglio privilegiato degli altri candidati e dei media variamente schierati. Mélenchon è il Bernie Sanders di Francia, il puro che grida che il re è nudo dopo aver battagliato indefesso contro il suo stesso partito, quello socialista, e contro i suoi stessi ex amici. Non è un caso che il team della comunicazione di Mélenchon sia andato a studiare il fenomeno Sanders negli Stati Uniti e abbia cercato di riposizionare l’immagine del proprio candidato sulla falsariga del senatore del Vermont: meno livore, più umanità.

Chi conosce Mélenchon sa che il suo istinto è tutt’altro che conciliante, anzi è famoso proprio per la sua ira, per la sua incapacità di compromessi, per la sua veemenza retorica: sentirlo parlare di come si prepara l’insalata di quinoa o celebrarlo per quella sua idea di proiettare il proprio ologramma ai comizi in modo da essere ubiquo e animare più folle fa un po’ ridere, ma è stato efficace. Mélenchon è risalito nei consensi, ha superato di un bel pezzetto il rivale naturale, il candidato per il Partito socialista Benoit Hamon, ha insidiato Fillon e in alcuni sondaggi lo ha superato, posizionandosi così al terzo posto dei consensi. Non si arriva al ballottaggio da lì, ma la progressione della candidatura di Mélenchon segnala l’incertezza nei confronti di Macron e soprattutto la possibilità di creare un altro genere di attrattiva, che non ha nulla a che fare con il centro e le riforme, ma riguarda gli estremi cosiddetti populisti.

Mélenchon predica il reddito di cittadinanza, le tasse ai redditi alti (al 100 per cento, non è uno scherzo), una settimana lavorativa non più di 35 ore ma di 32, gli investimenti nel welfare, la difesa dell’ambiente, l’uscita dalla Nato, la rinegoziazione dei trattati europei e in politica internazionale gravita attorno alla Russia. Assomiglia a un Jeremy Corbyn, leader del Labour britannico, ma assomiglia anche, pur con sfumature più marcate, a Marine Le Pen, o per lo meno: l’elettore tipo di Mélenchon non è così distante da quello della Le Pen. Come è facile immaginare, nessuno dei due ama il paragone, essendo figli di una storia completamente diversa, lei è cresciuta nell’estrema destra e lui ha militato nel Partito socialista per poi costruire una fronda con il Partito della sinistra e ora la France insoumise, all’estremo sinistro. Ma quando si parla con i militanti del Front national più giovani, si scopre che alcuni di loro hanno iniziato il loro attivismo in politica con Mélenchon: dicono che molte delle idee, soprattutto sull’economia, sono simili e semmai sottolineano che il leader della France insoumise è «troppo europeista» perché non parla di un’uscita della Francia dalla zona euro. 

Non si tratta naturalmente di sfumature in senso assoluto, ma se il confronto non fosse con la più radicale delle scelte, la Frexit, definire Mélenchon europeista sarebbe piuttosto paradossale. Non è un caso che, di fronte alla decisione dell’Amministrazione americana di Donald Trump di fare un blitz di rappresaglia contro il regime di Damasco dopo l’attacco chimico a Idlib, la reazione della Le Pen e di Mélenchon sia stata simile. Entrambi hanno criticato Trump, lei più perché non ci sono le prove delle responsabilità di Assad, lui più per un’ispirazione pacifista secondo cui ogni atto di guerra «è criminale», ma il risultato è lo stesso: meglio Vladimir Putin.

Questa convergenza ideologica sta creando un fenomeno nuovo: i giornali raccontano che molti elettori di destra stanno valutando l’ipotesi di votare Mélenchon. Un ministro del governo socialista ha detto a «Libération» che quel che sconvolge di più è che elettorati che pure sono teoricamente agli antipodi si stanno rivelando molto «porosi», cioè passano da uno schieramento all’altro senza una logica prevedibile. Tanto che i mercati hanno iniziato a credere, agitandosi enormemente, alle chance di quello che l’«Economist» chiama «lo scenario da incubo»: Le Pen e Mélenchon al secondo turno. In questo caso, le rilevazioni dicono che Mélenchon batterebbe poi la Le Pen al secondo turno, ma di misura, e questo non soltanto lascia aperte tutte le possibilità ma conferma quella porosità ingovernabile tra populismi che pure avrebbero matrici differenti. Soprattutto il messaggio per il resto dell’Europa e del mondo sarebbe devastante: dopo la Brexit, dopo Trump, la Francia si divide tra i due suoi estremi, disertando del tutto l’opzione liberale.

Il teorizzatore della porosità, del superamento di destra e sinistra, in realtà in Francia è un altro, ed è Emmanuel Macron. È stato lui il primo a smantellare la dialettica classica tra i partiti, creando dal nulla il suo En Marche! e attirando, da un punto di partenza progressista, i moderati di destra e di sinistra. L’operazione è andata bene, perché al di là delle riflessioni sulle intenzioni di voto (che sono alte per Macron, ma non si traducono poi in una certezza di voto altrettanto solida) e della candidatura un po’ da tecnico del giovane ex ministro dell’Economia, da tempo Macron è in testa o secondo nei sondaggi, assieme alla Le Pen. Ma la flessione nelle ultime rilevazioni e l’ascesa di Mélenchon fanno pensare non tanto e non solo che Macron possa essere un’altra bolla liberale pronta a scoppiare alla prova delle urne, ma piuttosto che la Francia sia un paese refrattario alla proposta liberale ed europeista e che la crisi dell’identità occidentale sia molto più profonda di quanto ci siamo abituati a credere. La scommessa in fondo è stata da sempre rischiosa seppure inevitabile: lasciare ai francesi l’ultima arma di salvezza di un progetto intero, il nostro.