La Francia è un paese che, periodicamente, viene scosso da conflitti sociali, le cui radici risalgono lontano nel tempo. Nei tempi moderni, il conflitto più violento è avvenuto 50 anni fa, nel Maggio 1968, ricordato come il più grande movimento francese di contestazione economica, sociale, culturale e politica dell’ultimo secolo. Da allora ci sono state altre proteste e rivolte.
Per esempio nel 1995, quando il governo presieduto da Alain Juppé tentò di varare una riforma delle pensioni. La pressione esercita dai manifestanti contrari alla riforma fu tale che il governo dovette far marcia indietro e rinunciare al progetto. Oppure nel 2018, quando il governo di Edouard Philippe riuscì a varare la riforma della SNCF (Societé Nationale des Chemins de fer Français), ma soltanto dopo un lungo periodo di scioperi e un altrettanto lungo braccio di ferro con i sindacati.
Oggi siamo alle prese con una nuova contestazione, sempre contro le intenzioni del governo. Sono settimane ormai che la maggior parte dei treni non circola più, che la metropolitana parigina è quasi interamente paralizzata, che gli ingorghi stradali si moltiplicano e che alcune raffinerie sono bloccate, nel tentativo di impedire, o per lo meno di rendere difficili i rifornimenti di carburante. Molti francesi devono ricorrere a mezzi di trasporto alternativi, non sempre facili da trovare, per recarsi al lavoro o per compiere un viaggio. Le manifestazioni indette dai sindacati si ripetono con una buona frequenza a Parigi e nelle altre più importanti città, e vantano una buona partecipazione di scioperanti, perché i lavoratori dei trasporti pubblici non sono gli unici a manifestare.
Accanto a loro vi sono anche altre categorie professionali come gli insegnanti, i pompieri, gli agricoltori, il personale sanitario ed i membri delle forze dell’ordine.
La posta in gioco è la riforma delle pensioni. Nell’attuale sistema pensionistico francese vi sono 42 regimi speciali. Il governo vorrebbe sostituirli con un nuovo sistema universale, uguale per tutti, considerato più democratico e più giusto. Vorrebbe anche che il nuovo sistema si appoggiasse su una base finanziaria sana in modo da impedire, o per lo meno ridurre, il sorgere d’importanti deficit annuali che vengono cancellati attingendo alle finanze pubbliche. Propone di mantenere invariata l’età di pensionamento a 62 anni, ma di rendere possibile la pensione completa soltanto a partire da 64 anni. Sono limiti d’età che tengono poco conto dell’invecchiamento della popolazione e che, in una prospettiva europea, sono molto inferiori a quelli in vigore nei principali paesi.
Sul principio di varare un nuovo sistema c’è un accordo abbastanza diffuso; le divergenze si coagulano intorno alle modalità d’applicazione del nuovo sistema. I sindacati più radicali, come la CGT (Confédération générale du travail) e FO (Force ouvrière) chiedono che la riforma venga abbandonata. Una scelta che consentirebbe di mantenere la situazione attuale e di aprire la porta ad una possibile riforma soltanto fra dieci o più anni. I sindacati riformatori, con in testa la CFDT (Confédération française démocratique du travail), il principale sindacato nazionale, accettano di discutere il nuovo sistema con il governo, ma rifiutano alcuni punti essenziali della riforma, come per esempio la possibilità di avere la pensione completa soltanto a partire da 64 anni.
Le direzioni dei sindacati esprimono un rifiuto molto diffuso nella popolazione, uno scontento che contribuisce a creare una forte tensione. Nonostante le incertezze che vigono ancora sul nuovo sistema, molti hanno cercato di confrontare la loro possibile futura vecchia pensione con la nuova che consentirà la riforma, e tutti hanno dichiarato di essere vittime di perdite anche consistenti.
E come avviene spesso, una nuova delusione ravviva vecchi rancori e vecchie rivendicazioni. E così piovono le richieste di migliori condizioni di lavoro, di aumenti salariali e di una migliore dotazione di personale, negli ospedali, per esempio, nella scuola e tra le forze di sicurezza, dove si registra un alto numero di suicidi. Ne deriva un danno all’economia del Paese e, soprattutto, un clima di rabbia sociale, che potrebbe sfociare anche in incidenti gravi. Un clima che ricorda quello che per un anno ha caratterizzato il movimento dei Gilet Gialli, quando i manifestanti sono scesi in piazza ed hanno compiuto blocchi stradali contro il caro vita e per rivendicare un maggiore potere d’acquisto.
La situazione è grave e può avere conseguenze politiche negative per il presidente della Repubblica e il suo governo. Emmanuel Macron ne è cosciente e si muove con la massima prudenza. Evita dichiarazioni che potrebbero alimentare le polemiche e cerca di rassicurare e di fugare i dubbi che la riforma ha creato. Con un gesto, che gli uni hanno accolto con benevolenza e gli altri hanno definito demagogico, ha rinunciato al vitalizio che potrebbe percepire quando non sarà più all’Eliseo. È un privilegio che in virtù di una legge del 1955 caratterizza la vita dei presidenti francesi. Ha anche rinunciato al diritto che gli spetta di far parte del Consiglio costituzionale e, quindi, ai 13 mila euro mensili connessi.
È difficile immaginare che possa uscire indenne da questa situazione senza mettere sul tavolo un buon numero di concessioni. Deve trovare un punto d’equilibrio tra il ritiro della riforma e la sua attuazione nella forma presentata fin ora. Nel primo caso, quello del ritiro della riforma, chiuderebbe la porta a qualsiasi altra importante riforma fino alla fine del suo mandato nel 2022, e metterebbe in pericolo la sua rielezione. Nel secondo caso, quello di un passaggio della riforma senza sostanziali concessioni, aumenterebbe l’amarezza e il risentimento degli scioperanti, con effetti negativi sulla possibilità di essere rieletto.
Nel campo avverso, sindacati e partiti politici cercano di sfruttare l’occasione per trovare consensi ed appoggi nelle loro battaglie. Con una vittoria, anche solo parziale, i sindacati renderebbero più popolare la loro immagine e acquisterebbero forza per affrontare altre battaglie. Dal canto loro, i partiti politici d’opposizione, riuniti nell’estrema destra e nella sinistra, sostengono l’opposizione alla riforma con il chiaro intento di indebolire Macron. La presidente del Rassemblement national Marine Le Pen sogna di prendersi la rivincita nel 2022 sulla sconfitta che subì nel 2017. Jean-Luc Mélenchon, il leader della France insoumise, nutre ambizioni analoghe e cerca di impedire che lo scenario della prossima elezione presidenziale sia simile a quello del 2017. Il partito socialista, infine, cerca di far risentire la sua voce, dopo la sua quasi completa scomparsa dalla scena politica.
L’intreccio di rivendicazioni sindacali e di ambizioni politiche, in un Paese che non conosce la cultura del compromesso, rende difficile ogni previsione sullo sbocco del conflitto. La speranza che molti francesi nutrono è che non ci siano nuove ferite sociali, suscettibili di creare più incertezze economiche e maggiore instabilità politica.