La Siria come incubatrice delle guerre che verranno in Medio Oriente: questa è la realtà che nessuno vuole vedere dietro i missili, i gas, i traccianti della contraerea, le stragi di civili, le città distrutte e i milioni di sfollati e rifugiati. Quali guerre? In Siria si sono già moltiplicati diversi conflitti ma fino al 14 aprile scorso – quando Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna hanno lanciato missili contro centri di produzione e/o stoccaggio di armi chimiche di Bashar al-Assad – si è trattato sostanzialmente di proxy wars, guerre per procura che hanno coinvolto potenze regionali e internazionali, ma sono state combattute in territorio siriano, appunto. L’ennesimo salto di qualità che si intravede adesso all’orizzonte è invece il deflagrare di conflitti diretti tra gli Stati mediorientali, capaci quindi di estendere l’instabilità all’intera regione. E quello maggiormente temuto è lo scontro tra Israele e Iran o tra Israele e Iran-Libano-Siria.
Assistiamo così a comportamenti per lo meno inusuali da parte di Israele come dei suoi nemici storici. Il 16 aprile scorso, ad esempio, una fonte militare israeliana rimasta anonima ha rivelato a Thomas Friedman, editorialista del «New York Times» e vecchia volpe del Medio Oriente, che il raid aereo del 9 aprile contro la base T4 di Tayfur tra Homs e Palmira in Siria è stato compiuto proprio dall’aviazione israeliana come ritorsione per il lancio il 10 febbraio scorso di un drone alla volta di Israele. Drone per neutralizzare il quale si era alzata in volo l’aviazione israeliana che era riuscita a metterlo fuori combattimento ma era stata a sua volta colpita dalla contraerea siriana con la perdita di un F15 e soprattutto di un pilota. Contrariamente a quanto si pensava, il drone era armato. «È stata la prima volta che abbiamo attaccato direttamente obiettivi iraniani, sia impianti sia persone» – ha chiarito la fonte israeliana a Friedman, che ha ritenuto di dover aggiungere «ed è stata anche la prima volta che abbiamo visto l’Iran, e non chi agisce per suo conto, fare qualcosa contro Israele. Questo ha aperto una fase nuova».
Detto in altre parole: è finita l’epoca della proxy war tra Israele e Iran per interposta Siria. L’Iran, per mano del colonnello Mehdi Dehghan, responsabile dell’Unità Droni della base T4, non ha agito attraverso i suoi fidi scudieri, gli Hezbollah libanesi, ma ha armato direttamente quel velivolo telecomandato e lo ha spedito verso «l’entità sionista». Per questo il 9 aprile gli iraniani sono stati duramente puniti con la morte di sette dei loro le cui foto sono apparse il giorno dopo sul «Tehran Times» che titolava: «Il raid aereo israeliano sulla Siria non resterà senza risposta».
Una cosa simile, nella storia degli interventi israeliani all’estero, non era mai successa, non era mai successo cioè che Israele rivendicasse una propria «azione punitiva» col rischio di scatenare una contro-ritorsione in questo caso iraniana. Se lo ha fatto, allora significa che l’escalation tra Gerusalemme e Teheran sta raggiungendo livelli di guardia e la «soffiata» al «New York Times» la possiamo considerare come una specie di ultimatum. Il sistema degli ultimatum tramite scoop-rivelazioni del resto non si è fermato lì. Il 18 aprile il «Wall Street Journal» rendeva noto, a sua volta, che prima del raid del 9 aprile contro la base T4, Netanyahu aveva avvisato Trump, ma soprattutto che ad essere colpiti in quella base non sarebbero stati solo i droni, ma anche un sistema iraniano di difesa aerea di ultima generazione basata su missili Tor. E chi vuol capire, capisca.
Israele del resto colpisce gli iraniani o i loro alleati Hezbollah in Siria fin dal 2015, quando la discesa in campo della Russia di Putin a fianco del regime di Damasco non solo ha salvato Bashar al-Assad ma ha totalmente rovesciato le sorti della guerra civile siriana a favore del dittatore e rafforzato la posizione regionale del più vecchio alleato della Siria in Medio Oriente, alias l’Iran degli ayatollah, nemico giurato di Israele. Israele che da allora, cioè dal 2015, ha adottato una strategia multipla per tentare di contenere la minaccia iraniana proveniente dal Paese confinante, fatta di incursioni aeree nei cieli della Siria per colpire convogli iraniani, in genere carichi di armi, indirizzati agli Hezbollah libanesi o veri e propri raid volti a distruggere basi iraniane in territorio siriano. Non è un mistero per nessuno, infatti, che Teheran usi la Siria per consolidare la cosiddetta Mezzaluna sciita Iran-Iraq-Libano-Siria (con l’aggiunta di Gaza) per contrastare l’influenza saudita-sunnita in Medio Oriente, nonché raggiungere il Mediterraneo da cui minacciare più direttamente proprio Israele.
Ma Israele è stato tra i primi a prendere di mira anche i centri siriani di produzione o stoccaggio di armi chimiche che in teoria avrebbero dovuto essere smantellati o svuotati dopo il 2013 quando il regime di Damasco gasificò per la prima volta la circoscrizione della Ghouta orientale. Uno degli ultimi raid del genere l’aviazione israeliana l’ha compiuto nel settembre 2017 quando ha preso di mira Masyaf, una cittadina del nord ovest della Siria, nella provincia di Homs. E alla fine di agosto, prima di far alzare in volo i propri caccia, il governo israeliano aveva già spedito il capo del Mossad Yossi Cohen ad informare Trump alla Casa Bianca di quanto si accingeva a fare, mentre il 23 agosto il primo ministro Benjamin Netanyahu in persona ne informava Vladimir Putin incontrandolo a Sochi in Russia.
Più si è fatta complessa la situazione in Siria, più Israele ha ritenuto opportuno tenere informate le due superpotenze sulle proprie linee rosse nei plurimi conflitti in atto nel Paese confinante. Agli Stati Uniti ha chiesto e continua a chiedere di non ritirare le truppe americane dal nord-ovest della Siria per non lasciare alla mercè della Turchia i curdi siriani di Manbij, suoi buoni alleati nella lotta contro l’Isis e nel «contenimento» delle milizie sciite iraniane, libanesi e irachene nel Rojava (il Kurdistan siriano). Alla Russia di Putin chiede invece di non permettere che l’Iran e gli Hezbollah consolidino la propria presenza militare nell’area sud occidentale della Siria, a ridosso delle Alture del Golan (1200 km quadrati del quale sono stati occupati dalle Idf, Israeli Defence Forces, nella guerra dei Sei giorni del 1967, poi annessi nel 1981).
A preoccupare Israele è soprattutto l’area di Quneitra che, in base agli Accordi negoziati dal segretario di Stato americano Henry Kissinger alla fine della guerra del Kippur del 1973 tra Israele e il duo Siria-Egitto, dovrebbe far parte della fascia di sicurezza sotto controllo dell’Onu cioè dell’area-cuscinetto smilitarizzata tra il Golan e la Siria che invece è stata «infiltrata» proprio da milizie armate sciite e formazioni terroristiche islamiche di provenienza varia. Queste milizie hanno creato in loco organizzazioni come l’Unità di Liberazione del Golan che ha fatto la sua comparsa nel marzo 2017 ed è una filiazione di Harakat Hezbollah Al-Nujaba (Movimento del Partito dei Nobili di Dio), gruppo paramilitare iracheno confezionato dagli iraniani. È invece siriano il gruppo Fouj Al-Joulan (Reggimento del Golan) creato dalle Forze di Difesa Nazionali, nate da una scissione del Libero Esercito di Siria, oppositore di Bashar al-Assad, che appoggiano invece il dittatore di Damasco e si avvalgono dell’expertise tanto dei pasdaran quanto degli Hezbollah libanesi in funzione anti-israeliana. E sono solo le formazioni maggiori.
Detto in altre parole l’area di Quneitra, che dovrebbe essere smilitarizzata, non lo è affatto, perché vi scorrazzano miliziani al servizio di troppe bandiere. L’esercito siriano cerca di riconquistarla non foss’altro perché da lì si controlla tutta l’area di Damasco, ma l’aviazione israeliana fa in modo che non arrivi troppo a ridosso del confine. E così si moltiplicano le occasioni di scontro tra israeliani e siriani, tra israeliani e formazioni pilotate dall’Iran e dagli Hezbollah; tra israeliani e formazioni jihadiste basate nel Golan siriano.
Ma le cose non sono tranquille nemmeno nel Golan israeliano. Non solo le Idf hanno il loro buon da fare per tenere lontani i gruppi terroristici che dalla Siria vorrebbero infiltrarsi nell’area, ma ora devono tener maggiormente sotto controllo anche la locale popolazione drusa, parte della quale ha preso a manifestare in favore di Damasco. I drusi (setta sciita) fino ad oggi non hanno mai rappresentato un pericolo per Israele. A quelli stanziati in Galilea nel 1948 – dopo la guerra di Indipendenza – venne concessa la cittadinanza israeliana e fu loro consentito di servire nelle Israeli Defence Forces, al contrario di quei palestinesi che sempre nel ’48 accettarono la medesima cittadinanza. Quanto ai drusi del Golan, per quel che si sa, dal 1967 non hanno mai dato vita a fronti di resistenza o liberazione da Israele. Il 17 aprile scorso invece, anniversario della partenza delle truppe francesi dalla Siria all’indomani dell’indipendenza nel 1946, cinquecento di loro sono scesi in strada a Ein Qiniye per inneggiare a Bashar al-Assad salutandolo come l’«eroe che ha sconfitto i bombardieri americani» a quattro giorni dai raid franco-anglo-americani nella Siria medesima. I drusi del Golan, per lo meno quelli di Ein Qiniye , hanno cioè fatto proprie le teorie del complotto tanto amate dal dittatore di Damasco. Anche questo non era mai successo ed è un altro segnale inquietante.