Quando sente la parola «turchi» la gente pensa automaticamente alla Turchia e al sultano barbuto col fez. È un errore, come spiegano due grandi studiosi come Sergio Salvi (l’autore del libro) e Franco Cardini (che ha scritto una strordinaria introduzione per il saggio). In realtà i turchi sono una popolazione originaria dell’Altai e prevalentemente insediata nel vecchio Turkestan russo, cioè l’Asia centrale.
Forza dinamica millenaria, i turchi distruggono l’impero romano con gli unni (che pur fermandosi sul Mincio sospingono i germani fino a Roma) e l’impero bizantino con gli ottomani, che turchizzano l’Anatolia. Non riusciranno ad abbattere l’impero d’Austria, che li ferma a Vienna e che firma con loro la pace di Karlowitz (1699). Da questo momento comincia il riflusso, che durerà fino al 1918, con l’esplosione dell’Impero ottomano.
Corretto il primo errore circa l’origine storico-geografica dei turchi, occorre correggere il secondo, che riguarda invece la loro cultura. Il trauma della sconfitta del 1918, e la brutale politica persecutoria dei vincitori, producono un effetto tsunami in Germania, dove arriva Hitler, e in Turchia, dove arriva Kemal. Kemal è un «giacobino», un occidentalizzatore spietato: stermina gli armeni, che rappresentano ai suoi occhi una doppia minaccia, l’oscurantismo religioso e il separatismo etnico. Il suo è lo Stato giacobino per eccellenza, rinchiuso nei confini naturali anatolici, dove non c’è posto per chi non parla turco e per chi non accetta l’occidentalizzazione. Barbe, fez e veli vengono scoraggiati.
Poi accade qualcosa di imprevisto: «la rimonta inattesa dell’Islam», un fenomeno che comincia nelle periferie, lontano dalle città secolarizzate dei giacobini, dei tecnici, degli studenti e degli intellettuali. Nelle campagne la gente ama ancora il fez e non dimentica le antiche tradizioni.
C’è un ragazzo, un giovanissimo venditore ambulante di limonate e panini al sesamo, che si aggira con un carretto e che viene da un distretto povero di Istanbul. Questo ragazzo, Recep Tayyip Erdogan, incarna la rimonta dell’Islam. Spinto dalla forte religiosità della sua famiglia, abbandona il carretto e scende in politica. All’inizio sembra un moderato, una specie di «democristiano» dell’Islam: è infatti apparentemente ispirato dall’imam ecumenista Gülen. Tuttavia, col tempo, Erdogan si fa sempre più aggressivo ed estremista (arriva al punto di appoggiare l’Isis) venendo, per le sue «pulsioni» imperiali, soprannominato «il sultano». Lui abbraccia contemporaneamente pan-islamismo e pan-turchismo. Il panturchismo è l’ideologia di Enver Pascià, turco anatolico morto in Asia centrale, terra che sognava di ricongiungere alla Turchia in contrasto con i massoni patriottici di Ankara. Dunque Erdogan riscopre i rapporti con la madrepatria centro-asiatica, ma anche col Causaso e con qualsiasi terra che ospiti gruppi turcofoni, nel nome di un mega-nazionalismo turco-musulmano.
Aggiornatissimo, il libro, tra storia e attualità, arriva a coprire anche le ultimissime crisi nelle quali Erdogan si è inserito (Libia, Siria eccetera). Sergio Salvi è equilibrato e in certi casi (come in quello di Israele, che bombarda i vicini) dà torto ai nemici di Erdogan, il quale è comunque descritto come un bruto corrotto.
Fra i libri di Paolo A. Dossena
Sergio Salvi, «Questi turchi» (Insula, maggio 2021), introduzione di Franco Cardini
/ 21.06.2021
di Paolo A. Dossena
di Paolo A. Dossena