Flirtando con il terrore

Pakistan – L’«arresto» di Saeed segna apparentemente un cambio di rotta nella gestione del terrorismo da parte di Islamabad, in seguito alle pressioni di New Delhi e alla paura di finire nella lista dei paesi «cattivi» di Donald Trump
/ 13.02.2017
di Francesca Marino

Qualche giorno fa, a Lahore, è stato messo agli arresti domiciliari Mohammed Hafiz Saeed (foto): fondatore della Lashkar-i-Toiba, capo della Jamaat-u-Dawa e della Falah-e-Insaniat Foundation: come dire, l’organizzazione che ha compiuto, tra le altre cose, il massacro di Mumbai del 2008 e le sue cosiddette organizzazioni umanitarie già da tempo nel mirino delle Nazioni Unite che le considera organizzazioni terroristiche. La notizia ha fatto sprecare tra India e Pakistan fiumi di inchiostro e di parole ma, all’atto pratico, è di pochissima rilevanza: Islamabad mette in genere ai domiciliari Hafiz Saeed quando viene messa particolarmente alle strette dalla comunità internazionale.

La cosa dura in genere poco e non ha conseguenza alcuna, tanto che all’arresto non sono seguite accuse formali e dai domiciliari il barbuto patriarca continua a rilasciare dichiarazioni e a tenere conferenze stampa. In cui dichiara, tra le altre cose, che «non smetterà di lottare fino a che non sarà risolta la questione del Kashmir». Come? Per usare le sue stesse parole, su cui pende una taglia della Cia e dell’India: «C’è un solo modo per risolvere la questione del Kashmir: jihad, jihad, jihad». Dopo avere arrestato Hafiz Saeed, la polizia di Lahore ha tolto di mezzo le bandiere della Jaamat-u-Dawa che tappezzavano varie strade della città: prontamente sostituite da altre bandiere inneggianti alla lotta per il Kashmir libero.

Il 5 febbraio, difatti, per il Pakistan è «la giornata del Kashmir»: niente di strano quindi che a Lahore e dintorni l’occasione si sia celebrata con manifestazioni e grida di guerra varie. Quello che stupisce, invece, è che la stessa occasione si sia celebrata a Milano, in Piazza Castello. Circa duecento persone, rigorosamente tutte di sesso maschile, si sono riunite per protestare contro le violazioni dei diritti umani nel Kashmir indiano. In italiano, e per circa venti minuti complessivi durante le quattro ore della manifestazione. Perché tutta la manifestazione si è difatti svolta quasi esclusivamente in urdu: e in urdu, la narrativa era completamente diversa. Non solo. I kashmiri, tra i partecipanti, erano relativamente pochi: si trattava in maggioranza di pakistani, e difatti lo slogan più adoperato non era «pace» ma «viva il Pakistan».

A organizzare la manifestazione è stata un’organizzazione che si chiama Tehrik-i-Kashmir: ha sede in varie capitali europee e che è legata a doppio filo sia alla suddetta Jamaat-u-Dawa che al Kashmir Centre, organizzazione finanziata dall’ISI pakistana allo scopo di fare pressione sui governi e sulle istituzioni europee e di raccogliere fondi. Alla manifestazione si sono uniti anche i rappresentanti della comunità Sikh con la sigla «Khalistan Khalsa»: quasi a provare, se ce ne fosse bisogno, la verità di ciò che da anni sostengono i servizi indiani: che il terrorismo di matrice sikh, che sembrava da anni scomparso dalla scena, si sta riorganizzando per mano dell’Inter-Service Intelligence pakistana (ISI) e che avrebbe stretto legami con le organizzazioni islamiche combattenti in Kashmir (e con sede ufficiale a Lahore) come la Lashkar-i-Toiba e la Jaish-i-Mohammed.

Lo spettacolo lasciava francamente senza parole: soprattutto perché, vale la pena ricordarlo, proprio da Brescia provenivano alcune delle Sim card usate nell’attacco di Mumbai e del denaro che è servito a finanziare il recente attacco di Uri. Fare due conti non dovrebbe poi essere così difficile. Sembra quasi che in Italia si stiano adoperando metri di giudizio alla pakistana: a Lahore Hafiz Saeed è stato ogni volta liberato dai fantomatici arresti domiciliari perché «non ha mai compiuto alcun reato in territorio pakistano». Con la medesima scusa, per anni, il Pakistan ha dato mano libera, e continua a farlo, a tutte le organizzazioni jihadi che non compivano reati in patria ma soltanto in India e dintorni: e per questo, ha pagato alla fine un prezzo altissimo.

Alla fine il terrore si è riversato anche tra le strade del Pakistan, quando i «bravi» jihadi, creati e adoperati dai servizi segreti come strumento sporco di politica estera, hanno rilanciato con poste sempre più alte. I «buoni» terroristi non esistono, esistono terroristi, di qualunque nazionalità e con qualunque nome. E nessun paese civile dovrebbe fare finta di non vedere o di non capire. La lettura del Frankenstein di Mary Shelley agli alti vertici di governi, servizi segreti e forze dell’ordine dovrebbe essere obbligatoria. A Islamabad, si sono accorti da tempo del pericolo di flirtare con il terrore: solo, se ne sono accorti troppo tardi.