La nuova guerra fredda è cominciata. Tra Stati Uniti e Cina non siamo più nell’ambito di una guerra commerciale. Ormai è chiaro che gli squilibri tra esportazioni e importazioni sono stati solo un casus belli, un capitolo in uno scontro ben più vasto. È come se di colpo si fossero accesi tanti segnali d’allarme, e l’America avesse aperto gli occhi: c’è qualcuno che sta per rubarle il posto; poiché lo sfidante ha anche un sistema politico incompatibile con i valori storici dell’Occidente, la minaccia assume una dimensione esistenziale, epocale. Gli alleati sono chiamati a stringersi intorno agli Stati Uniti, o ne pagheranno le conseguenze.
Tutto questo non incomincia con Donald Trump. Era nell’aria già da tempo un riesame dei rapporti Usa-Cina. Torna in mente un autorevole rapporto americano i cui autori non sono affatto vicini a questo presidente. Gli davano però atto di questo: Trump ha visto giusto sulla Cina, anche se i metodi che usa non sono efficaci. La minaccia che viene da Pechino è molto più seria di quanto l’Occidente abbia capito: economica e tecnologica, politica e militare, è una sfida egemonica a tutto campo, contro la quale bisogna correre ai ripari. Lo dicevano tre mesi fa i massimi esperti americani sulla Cina, molti dei quali sono progressisti; alcuni hanno avuto un ruolo di punta sotto le Amministrazioni democratiche di Bill Clinton e Barack Obama.
Le loro conclusioni sono contenute nel Task Force Report presentato il 13 febbraio scorso all’Asia Society New York, e intitolato «Correzione di rotta». In questo Task Force Report, c’è la più completa e aggiornata analisi sullo stato dei rapporti tra le due superpotenze. Orville Schell e Susan Shirk, che hanno guidato per due anni i lavori di questo gruppo di esperti bipartisan, danno atto a Trump di avere intuito cose che l’establishment economico e le alte sfere della diplomazia hanno tardato a riconoscere. Cina e Stati Uniti sono effettivamente «in rotta di collisione», ma non per colpa del protezionismo di Trump. La crisi nei rapporti viene da lontano, sarà durevole, avrà ripercussioni globali anche nel dopo-Trump, chiunque gli succeda alla Casa Bianca.
È la Cina ad applicare in modo sistematico il protezionismo e il sovranismo: discrimina tra imprese straniere e nazionali, «calpesta le norme della competizione e le leggi internazionali, viola i principi fondamentali della reciprocità». In campo tecnologico persegue disegni egemonici, dalla quinta generazione della telefonia mobile all’intelligenza artificiale, una «nuova forma di mercantilismo», con sinergie tra imprese civili e forze armate che sono teorizzate nel piano «Made in China 2025». L’America e l’Europa sono state pericolosamente distratte, per molti anni.
L’accelerazione cinese verso una nuova ambizione espansionista e un approccio aggressivo viene da lontano: la grande crisi del 2008 convinse i dirigenti comunisti di Pechino che il loro modello autoritario è superiore alle liberaldemocrazie occidentali; con l’avvento di Xi Jinping nel 2012 la svolta verso il «trionfalismo nazionalista» si è fatta ancora più marcata. Questo ha coinciso con una pesante involuzione autoritaria del regime cinese, che non avviene solo ai danni dei propri cittadini o delle minoranze etniche in Tibet o Xinjiang, ma anche all’estero. La Cina sta «esportando metodi autoritari», nei modi in cui usa il proprio potere economico per ricattare e zittire le critiche.
Rapisce cittadini cinesi a Hong Kong, minaccia governi stranieri, manovra le concessioni di visti o di finanziamenti culturali, ricatta gli studiosi e le università occidentali per allargare la sfera d’azione della propria censura. Intanto procede l’escalation del riarmo, con atti sempre più aggressivi verso Taiwan e altre democrazie alleate degli Stati Uniti, a cominciare da Giappone e Corea del Sud.
L’avvento di Trump ha costretto la Cina a fare i conti con una contro-reazione. La cui efficacia però non convince gli esperti. Gli errori di Trump sono soprattutto due: non ha saputo costruire un’alleanza d’interessi per costringere la Cina a rispettare le regole; e ha limitato il contenzioso alla sfera commerciale evitando ogni pressione sui diritti umani. «Una grande forza dell’America è la rete di amicizie: ha 60 paesi alleati nel mondo, la Cina ha la Corea del Nord. È su questa forza che bisogna far leva; non agire da soli spaccando il fronte dei propri alleati». Ci sono dubbi anche sulle concessioni in campo commerciale: perché la Cina cambi in profondità il suo nazionalismo spregiudicato che altera le condizioni della concorrenza, «bisogna mettere la leadership comunista di fronte a un nuovo sistema di pressioni e di controlli continuativi, un percorso di lungo termine per correggere comportamenti che sono radicati».
Firmano il rapporto bipartisan i think tank Asia Society; Center on US-China Relations; 21st Century China Center. Tra gli esperti che vi hanno lavorato c’è il veterano della diplomazia Winston Lord, ex-ambasciatore in Cina, già braccio destro di Henry Kissinger. Era in prima fila al vertice del disgelo Nixon-Mao che nel 1972 fece la storia. Oggi lo preoccupa «un’America che ha cancellato i diritti umani e la democrazia dall’agenda delle sue relazioni con la Cina».
Ricordate «Chimerica»? Il neologismo fondeva «China+America». Fu di moda a un’epoca in cui sembravano avviate a diventare quasi una cosa sola, almeno sul piano dell’economia e della finanza. Nello stesso periodo, si parlava molto di un G2 destinato a sostituire gli inefficaci G7 e G20. Un direttorio a due, sull’asse Washington-Pechino, veniva teorizzato come il perno della futura governance globale. Gli altri avrebbero dovuto adeguarsi per forza, una volta raggiunto un accordo sino-americano ed emanate le direttive del G2. Scenari che oggi sembrano irrimediabilmente datati. Quell’epoca si è chiusa e non tornerà più. Sta succedendo, a gran velocità, ciò che molti esperti consideravano impossibile. I dazi di Trump sono solo l’acceleratore di un divorzio che cambierà le mappe del nostro futuro, e avrà conseguenze anche sull’Europa.
Trump può perdere le elezioni nel 2020 ma oggi quei democratici che lo sfidano sono ancora più duri di lui con Pechino. La resa dei conti precipita a tutti i livelli: le maggiori multinazionali Usa stanno rivedendo i loro piani cinesi e la loro dipendenza da quel mercato di sbocco, o da quella base produttiva. L’ultimo caso è quello di Google che decide di negare il proprio software alla Huawei, colosso della telefonia: l’azienda americana preferisce perdere un grosso cliente cinese piuttosto che esporsi al suo spionaggio tecnologico (e alle sanzioni del governo federale). Casi come questo si stanno moltiplicando. Non è ancora una fuga precipitosa; gruppi come Apple, Boeing, General Motors hanno fatto affari fantastici in Cina, vi hanno prodotto per anni a basso costo; ridimensionano a malincuore la loro dipendenza da quel mercato e da quella «fabbrica». Ma tutti stanno cercando alternative, vie di fuga, piani di ritirata strategica.
È la fine di un pezzo di storia della globalizzazione durato almeno un quarto di secolo. Con esso tramonta anche un certo ordine mondiale: finché tra Washington e Pechino prevaleva la convinzione di avere molto da guadagnare nella divisione dei ruoli, il loro rapporto generava stabilità. Sembrava irreversibile quella simbiosi, fatta di complementarietà, compenetrazione, mutuo vantaggio. Tutto il resto del mondo, compresi tanti industriali europei che in Cina hanno avuto successo, e quegli ambienti del Vecchio Continente attirati dalle Nuove Vie della Seta di Xi Jinping, devono sapere che le regole del gioco globale stanno cambiando. Sarà difficile per tutti, rimanere neutrali nella grande sfida.
Non bisogna focalizzarsi sulle singole mosse di Trump. Il personaggio è imprevedibile, questo fa parte della sua tattica negoziale. Al G20 di Osaka tra un mese, potrebbe anche tentare una sorpresa, un’improvvisa intesa con Xi Jinping che fermi l’escalation dei protezionismi. Ma al di là delle sceneggiate, nulla sarà più come prima. Lo stesso capitalismo americano ha riveduto il suo ottimismo sull’opportunità cinese. In parte è il successo di Pechino ad aver provocato questo raffreddamento. La vecchia divisione dei compiti tra un’economia avanzata ed una emergente, prevedeva delocalizzazioni verso il paese a basso costo della manodopera, il quale riesportava verso il mercato americano anche tanti prodotti di marche Usa.
Gli squilibri della bilancia commerciale, o lo smantellamento della classe operaia americana, non preoccupavano né i capitalisti della Silicon Valley né Wall Street. La strategia cinese ha garantito ricchi profitti a tutti. Ma la Cina di Xi Jinping sta cogliendo i frutti di un grande progetto di emancipazione. È sempre meno emergente; in molti settori l’allievo ha superato il maestro; punta alla supremazia mondiale nelle tecnologie avanzate.
Quando Amazon è costretta a chiudere le sue attività cinesi, è la conseguenza del fatto che Pechino ha coltivato (con mezzi leciti e illeciti) dei campioni nazionali che fanno terra bruciata attorno a molte aziende straniere. A questo si aggiunge la consapevolezza del Pentagono e dell’intelligence Usa, che Pechino brucia le tappe anche nella rincorsa politico-militare. Xi è il primo leader che proclama urbi et orbi la superiorità del suo modello politico autoritario sulle nostre liberaldemocrazie. Lo scenario della «trappola di Tucidide» (la rivalità Atene-Sparta che sfociò nella guerra del Peloponneso) viene studiato sempre più attentamente. Sul lungo periodo le profezie spesso vengono smentite, la storia adora le sorprese. Ma bisogna prepararsi ad una serie di tregue armate, compromessi effimeri, in cui America e Cina studieranno l’avversario per preparare nuove offensive.