Un clima da campagna elettorale permanente che persiste da quattro anni. In questo contesto ormai cronicizzato fatto di mozioni di sfiducia, investiture mancate ed elezioni che si susseguono senza tregua (l’ultima solo sei mesi fa), 37 milioni di elettori si esprimeranno domenica in un voto che sarà il banco di prova per le ambizioni del premier socialista Pedro Sánchez. Il primo ministro, che durante l’estate non è riuscito a formare un governo portando il Paese di nuovo alle urne, si gioca molto del suo futuro politico. Queste elezioni, dal risultato incerto e che vivranno i giorni decisivi in questa ultima settimana, hanno avuto come epicentro due grandi temi: la questione catalana e l’esumazione della salma del dittatore Franco.
La dura sentenza contro i leader indipendentisti catalani che ha causato manifestazioni violente e incidenti per la strade di Barcellona ha determinato le strategie dei vari partiti. Se per la maggioranza dei catalani (indipendentisti ma anche unionisti) il verdetto che ha condannato a una dozzina di anni di carcere ciascuno dei sette leader politici separatisti è sembrato sproporzionato, nel resto di Spagna la percezione è stata l’esatto contrario. Il 51% degli spagnoli considera infatti giusta la sentenza per sedizione contro i responsabili del referendum secessionista dell’autunno 2017 mentre un 22% (principalmente proveniente dai partiti di destra) la ritiene fin troppo mite. E questa presunta indulgenza della magistratura con i separatisti catalani è stata cavalcata in campagna elettorale dal nuovo partito di estrema destra Vox, che molto probabilmente sarà il grande beneficiario politico di questa sentenza.
Alcuni sondaggi indicano infatti il partito di Santiago Abascal in forte ascesa e terzo in intenzioni di voto (otterrebbe il 12%, dietro i socialisti al 28% e i popolari con il 22%). Questo partito reazionario, centralista e anticatalanista è favorevole al commissariamento immediato della Catalogna e all’incarcerazione del suo attuale presidente Quim Torra. Vox si alimenta dagli scontri di piazza che sono avvenuti in Catalogna e dall’incapacità dei partiti politici nel risolvere la questione catalana, auspicando una mano ancora più dura contro i secessionisti. Questi neofranchisti, un mix di populismo xenofobo e autoritarismo, fanno particolarmente breccia nella Spagna rurale e starebbero traendo un vantaggio politico anche dalla decisione di spostare i resti del dittatore Franco dal mausoleo del Valle de los Caídos, cosa ritenuta come un affronto dai molti nostalgici del franchismo.
Di tutt’altro avviso è stato il premier socialista Pedro Sánchez che ha deciso di realizzare l’operazione di riesumazione del caudillo in piena campagna elettorale. Una decisione che è stata criticata da tutti i partiti perché ritenuta «elettoralista» e presa ai fini di ricompattare i votanti del Psoe e di ingraziarsi le simpatie dell’elettorato di sinistra proprio quando i sondaggi lo davano in calo. Sánchez spera anche in questo modo di ritagliarsi il suo posto nei libri di storia di Spagna, passando come il presidente che ha messo fine a un anacronismo democratico, quello di avere un mausoleo dedicato a un dittatore, in cui convivevano i resti di decine di migliaia di vittime di Franco accanto al suo carnefice. Purtroppo per Sánchez però il giudizio che daranno gli elettori spagnoli nelle urne sarà prevalentemente orientato al presente e sulla sua gestione della crisi catalana.
Il premier è stato attaccato dai due fronti. Dagli indipendentisti per aver indurito negli ultimi tempi il suo discorso ed essersi dimostrato irreprensibile con i catalani nella difesa della gestione dell’ordine pubblico. In questo senso è stato emblematico il suo viaggio a Barcellona, fatto per andare a visitare in ospedale esclusivamente i poliziotti feriti negli scontri (ma nessuno dei manifestanti), mentre evitava di incontrarsi con Quim Torra e nemmeno rispondeva alle chiamate telefoniche dello stesso presidente della Generalitat. Sull’altro fronte, per le opposizioni della Destra tripartita di Partito popolare, Ciudadanos e Vox, il comportamento del primo ministro sarebbe stato fin troppo tollerante con le manifestazioni di piazza, gli scontri, i sabotaggi continui alle infrastrutture catalane promossi dalle nuove entità apolitiche nate in Catalogna come i sedicenti CdR (Comitati per la difesa della Repubblica) e dalla piattaforma digitale Tsunami Democràtic.
Nella regione di Barcellona si sta sfiorando il caos istituzionale. L’indipendentismo è diviso al suo interno circa la nuova strategia da adottare dopo la sentenza: la Sinistra repubblicana è più cauta mentre il partito dell’incendiario Presidente della Generalitat Torra, che ha faticato a stigmatizzare gli estremismi violenti della piazza, vuole puntare a un nuovo referendum di secessione. In Catalogna si assiste ad una paralisi nella vita quotidiana delle persone: scioperi a singhiozzo, università chiuse in segno di protesta, metropolitane e autostrade bloccate sono diventate ormai la normalità. In una regione spaccata a metà tra indipendentisti e unionisti, sono cresciute a dismisura frustrazione politica e rabbia. Gli uni per non essere riusciti a ottenere l’indipendenza che politici demagogici avevano promesso (a partire dall’ex presidente Carles Puigdemont, tuttora «esiliato» in Belgio); gli altri perché devono subire questa situazione di tensione permanente fatta di duri scontri e disordine pubblico.
In questo ambiente diventato adesso rovente non solo politicamente, le iniziali aspettative di Pedro Sánchez di uscire rafforzato da queste nuove elezioni, sembrano essere vanificate dai risultati degli ultimi sondaggi. Stando alle previsioni, il Psoe semplicemente manterrebbe la stessa rappresentazione politica che aveva nell’ultimo Parlamento (123 seggi su un totale di 350 deputati). Una forte ripresa del Partito popolare di Pablo Casado è data per scontata (otterrebbe un centinaio di seggi) dopo il minimo storico di 66 deputati dell’aprile scorso, rimanendo il secondo partito. Le indagini demoscopiche prevedono un crollo dei liberali di Ciudadanos al 9% (penalizzato dai movimenti politicamente ondivaghi del suo leader Albert Rivera) e una lotta per il terzo posto tra l’estrema destra di Vox e la sinistra radicale di Unidas Podemos, dati entrambi al 12%. Dalle costole di quest’ultimo partito è nato un altro movimento della sinistra, denominato Más País, una nuova piattaforma politica fondata dall’ex numero due di Podemos Íñigo Errejón, ma che otterrebbe solo il 4% e una mezza dozzina di voti, non sufficienti a formare un esecutivo guidato da Sánchez e appoggiato dalle sinistre.
La divisione tra il blocco progressista (Psoe, Unidas Podemos e Más País) e quello della Destra tripartita (Pp, Ciudadanos e Vox) sarebbe minima: 44% contro 43%. Un ristretto numero di seggi potrebbe quindi determinare la contesa elettorale in un senso o nell’altro. È anche possibile però che nessuno di questi schieramenti riesca a ottenere la maggioranza assoluta dei seggi in Parlamento. A quel punto i voti degli indipendentisti catalani o dei nazionalisti baschi risulterebbero imprescindibili ma difficilmente integrabili in alleanze parlamentari. Insomma nuove elezioni per un probabile nulla di fatto.