Farage non invaderà Westminster

GB– I Tories escono sconfitti dalle urne che hanno invece premiato il Brexit Party e punito la politica fallimentare del governo May
/ 03.06.2019
di Cristina Marconi

I più ottimisti notano che il voto europeo ha meccanismi troppo diversi da quelli delle elezioni generali: il 31,7% del Brexit Party non si tradurrà necessariamente in un’invasione di Westminster. I più pessimisti pensano che gli euroscettici dominano da tre anni il dibattito e che ora sarà solo peggio: i Tories faranno di tutto per inseguire Nigel Farage e scrollarsi rapidamente di dosso quell’8,7% dei voti che li ha fatti diventare il quinto partito con una strategia muscolare e molto retorica sulla Brexit.

La fine della «pax mayana», ossia quella stagione politica relativamente lunga in cui la premier uscente Theresa May ha fatto da parafulmine e ha permesso al Regno Unito di non fare i conti con quanto profonde sono le sue spaccature, porterà a una resa dei conti brutale e potrebbe trasformare il panorama politico britannico, abituato a un placido bipartitismo in cui di tanto in tanto fanno capolino i LibDem. Questi ultimi sono riemersi dall’oltretomba politico in cui erano precipitati dopo l’esperienza di governo con David Cameron per accaparrarsi un solido 18,5% del voto europeo, con punte del 40% a Oxford e del 47% in quartieri di Londra come Kingston. Con una strategia semplice: hanno sempre detto di volere un secondo referendum. 

Alla stessa conclusione – ci vuole un secondo voto – è frettolosamente giunto anche il leader laburista Jeremy Corbyn, che ha assistito a perdite oceaniche per il suo partito, finito terzo con il 14,1% dei voti per via di quei tentennamenti con cui si è tentato dal 2016 in poi di sorvolare sul divario tra elettorato cittadino europeista e votanti delle zone deindustrializzate del nord pro-Brexit. Anche a lui, come ai Tories meno assetati di sangue, in teoria sarebbe convenuto vedere l’accordo della May passare e l’uscita dalla Ue risolta una volta per tutte, ma c’era il problema di come raggiungere l’obiettivo senza «infangare» il proprio nome e il proprio curriculum parlamentare con un voto troppo controverso. E quindi si sono tirati tutti indietro e hanno lasciato la May da sola a cercare di risanare l’atmosfera che lei stessa aveva contribuito a creare e a decantare le virtù dell’arte del compromesso che lei conosce così poco. Michael Gove, uno che avrebbe tutte le carte in regola per diventare leader conservatore, non piace all’ala destra del partito perché ha votato e difeso l’accordo della May. Imperdonabile. 

«I remainers conservatori sono stati messi nell’angolo, non possono più appogiarsi ai laburisti pro-Ue perché comunque l’opposizione non può assolutamente permettersi di andare alle urne in queste situazioni», dice soddisfatto Bill Cash, eurofobo della prima ora. Parlando con Azione, osserva come «i membri dello Erg, il gruppo di Rees-Mogg, abbiano avuto ragione a tenere la barra dritta» contro l’accordo e con una certa fierezza osserva: «Siamo stati noi a mandare via la May». Il partito conservatore non ha perso le elezioni europee, anzi: secondo Cash i Tories del futuro, quelli che aspettano di poter venire fuori dalle ceneri del governo May, hanno già vinto, perché sono quelli con la linea politica giusta e, rispetto a Farage, la capacità di governare, di avere competenze su tutti i dossier.

«Penso che avremo in Dominic Raab la guida giusta», aggiunge l’anziano deputato Tory, il quale ricorda come Boris Johnson, per quanto vivace e brillante, non avrà «una maggioranza» tra i conservatori. Anche se l’unica cosa che si può escludere è che venga eletto un altro remainer come Amber Rudd o chiunque abbia mostrato forme di morbidezza verso Bruxelles. Nel mondo di Bill Cash, che è tutt’altro che di nicchia al momento, la disponibilità a procedere verso il no deal è un punto d’onore, non un elemento di inquietante spericolatezza. 

Ad onor del vero, «non avere nessun accordo è meglio che avere un cattivo accordo» è una frase che Theresa May ha ripetuto all’infinito nella prima fase del suo mandato. È stata lei ad abituare il Paese al fatto che le regole dell’Organizzazione mondiale del commercio possano essere una soluzione accettabile, addirittura preferibile. E visto che dalla capitale europea è stato ribadito ancora una volta che l’accordo raggiunto alla fine del novembre scorso con la premier uscente non si tocca, l’unico modo per uscire dalla Ue senza dover concedere nulla è il no deal. Raab, avvocato quarantacinquenne di bell’aspetto e totalmente digiuno di rudimenti di politica commerciale, come ha dimostrato nell’ormai famoso discorso in cui ha ammesso di aver scoperto poco prima l’importanza della rotta Dover-Calais per gli scambi tra continente e Regno Unito, è il ragazzo-immagine di questo tipo di linea.

Boris è finito sotto inchiesta per la nota bugia dell’epoca del referendum sui 350 milioni di sterline spediti ogni settimana a Bruxelles, ma che questo possa indebolirlo è tutt’altro che certo. I moderati Tory rischiano di dover ripiegare su di lui nella speranza che metta la sua energia e il suo carisma al servizio dell’accordo sulla Brexit, modificando le parti legate ai rapporti politici futuri per dare una patina di rinnovamento al vecchio faldone di Theresa, facendolo passare nell’interesse di tutti. Ma anche se la maggioranza dei voti è andato ai partiti anti-Brexit, gli euroscettici sono da sempre più compatti, rumorosi e pronti a tutto. Vedremo cosa succederà ora che uno di loro si troverà per le mani un dossier serio e complesso. Sicuramente la May non vede l’ora di scoprirlo.