È ormai fuori discussione che, con l’avvento della crisi del debito europeo a partire dalla fine del 2009, l’Area Euro con i suoi 19 paesi membri sia stata terreno di conflittualità su quale approccio economico adottare per contrastarla. Paradossalmente, le divergenze di approccio fra Nazioni si sono manifestate non tanto con la temuta Grexit (finora, perlomeno) o la fuoriuscita di un qualche altro membro «traballante», bensì all’interno dell’elemento superiore costituito dall’Unione Europea stessa con l’ormai nota Brexit del Regno Unito. In un anno elettorale così «caldo» con appuntamenti di voto nei Paesi Bassi, in Francia e Germania (dove una riconferma dell’attuale assetto partitico non è scontato) la moneta unica è ritornata alla ribalta, ascrivendole una qualche responsabilità per le difficoltà di ripresa perduranti in molte regioni d’Europa. Unicità monetaria da un lato, ma, dall’altro, ancora divisioni infra-europee.
Se io stesso non sono certo mai stato timido nel sottolinearne l’insostenibilità (perlomeno, con l’attuale approccio economico-politico one size fits all per Paesi così differenti fra loro), difficilmente si può plausibilmente sostenere che senza la moneta unica certi Paesi europei sarebbero ora stati meglio. Intendiamoci: rimane vero che l’Euro abbia fatto perdere competitività a molti Paesi (perlopiù, mediterranei) a causa della perdita di autonomia monetaria e dei margini di flessibilità: tassi di cambio comuni per lo più elevati non hanno agevolato quei Paesi, le cui monete nazionali «volavano» da sempre più basse che alte. Se a ciò si aggiunge la rigidità europea nell’affrontare le prime crisi dalla propria nascita (con scelte economico-politiche paradossali rivelatesi pro – anziché anticicliche, cioè più frenanti a fronte di trend già al ribasso), la diagnosi è chiara. È la cura che è ancora «allo studio».
Non si può dimenticare che ciò che ha permesso a tali Paesi europei di godere ancora di una certa stabilità nonostante stagnazione produttiva cronica, ostacoli burocratici creati ad hoc e livelli di indebitamento pubblico difficilmente sostenibili, è stata proprio la moneta unica. Che cosa sarebbe successo, se le stesse forze speculative (che hanno conquistato il «merito» di avere fatto impennare nella fase acuta della crisi il differenziale di rendimento sui titoli di Stato ormai conosciuto come spread) avessero fatto leva su certe (ancora tanto evocate) monete nazionali, la cui storia monetaria presentava nella sua evoluzione molte incertezze? I picchi dei tassi d’interesse sui bond pubblici a lungo termine richiesti a Grecia (29,24%, febb. 2012), Irlanda (11,43%, giu. 2011), Italia (7,06%, nov. 2011), Portogallo (13,85%, genn. 2012) o Spagna (6,79%, lug. 2012)* sono sì stati frutto di speculazione, ma hanno anche rispecchiato (come un corso d’acqua, che si scava il suo nuovo letto dopo che quello dei tassi di cambio era stato artificialmente bloccato) la profonda diversità economica fra gli Stati.
Il Marco tedesco avrebbe forse sì goduto di ancor maggiore stabilità rispetto all’Euro, ma quindi ‒ se si prende per buona tale affermazione ‒ deve valere anche l’opposto, cioè che i Paesi europei colpiti dalla crisi lo sarebbero stati potenzialmente ancor più se detentori delle loro valute nazionali. In presenza di un attacco speculativo, infatti, queste ultime avrebbero subìto un deprezzamento massiccio del loro corso valutario, che ‒ se da un lato avrebbe sì avvantaggiato il settore dell’export (da cui molti di tali Stati dipendono) ‒ dall’altro avrebbe creato per i loro residenti le premesse per potersi sempre meno interfacciare con le rimanenti Nazioni europee, i cui tassi di cambio fossero stati maggiori. Banalizzando: adieu (o, almeno in parte) viaggi a basso costo, marchi internazionali in molti negozi, importazioni di beni, servizi o macchinari produttivi a prezzi pressoché similari ed altro ancora.
No, la «culla» dei problemi non è certo l’Euro, che semmai è stata la proverbiale «goccia, che ha fatto traboccare il vaso». I difetti sono strutturali e devono essere risolti ‒ su questo si deve concordare con l’attuale Presidente BCE ‒ all’interno delle economie nazionali, che devono procedere a flessibilizzare il loro apparato burocratico, prevedere sgravi fiscali per ogni tipo di innovazione (dall’impianto produttivo di ultima generazione alla ristrutturazione domestica, fino alla tutela dell’ambiente) e sapere cogliere le opportunità date dal mercato comune europeo. Indubbio è che, se l’Eurozona vuole godere di futuro certo e solido, l’approccio finora tenuto deve cambiare. E rapidamente.
* http://ec.europa.eu/eurostat/tgm/table.do?tab=table&init=1&plugin=1&pcode=teimf050&language=en