Etiopia senza veli

Reportage – 1. parte Viaggio in un Paese che non è mai stato una colonia dei bianchi, dove la sua storia è sua e non vuole attribuire all’Occidente le sue colpe. Anche se noi abbiamo la tendenza a considerarci l’ombelico del mondo nel bene e nel male
/ 18.02.2019
di Federico Rampini

«Aiutarli a casa loro», perché non debbano emigrare? C’è un paese africano che ce lo sta chiedendo. Ha legami storici con noi («occupato» brevemente, non colonizzato, così ama definirsi), non ce ne conserva alcun rancore, anzi ci vorrebbe più presenti. È considerato il miracolo africano del momento, per la crescita economica. Il suo giovane premier è una star mondiale. È Abiy Ahmed, il 42enne riformatore alla guida dell’Etiopia. Un colosso da 105 milioni di abitanti (forse molti più, ce lo dirà il censimento in corso), con tassi di crescita «cinesi», in tutti i sensi. Una nazione che potrebbe servire da guida a tante altre del continente nero. Forse.

Nello stesso periodo in cui l’Italia era appesa al destino dei 47 disperati a bordo della della Sea Watch, mi sono dedicato a un lungo viaggio nell’Africa nera. Mi permetto di sottolineare una sproporzione. Per intere settimane, a giudicare dallo spazio sui media italiani, è sembrato che il trattamento riservato a quei 47 profughi fosse l’unico modo per giudicare in quale paese viviamo. La sorte di 47 persone era il test da superare per capire se sappiamo governare i flussi migratori (visto da destra) o se sappiamo dimostrare umanità, solidarietà, rispetto dei diritti umani (visto da sinistra). In Africa vivono 1,2 miliardi di persone. La stragrande maggioranza delle quali sognano un futuro dignitoso là dove sono nate. A metà del secolo – cioè fra soli trent’anni – secondo l’Onu potrebbero sfiorare i due miliardi. Quasi quanto Cindia.

La grande questione del nostro tempo – economica, sociale, umana, morale – è se l’Africa riuscirà finalmente a liberarsi dal sottosviluppo, e darà una risposta adeguata alle aspirazioni di una parte così vasta dell’umanità. Se non ci riuscisse le ondate di profughi potrebbero diventare molto più grandi, e più difficili da governare. Se ci riuscisse la storia del mondo imboccherebbe una strada diversa, così com’è accaduto in Cindia e nel Sud-est asiatico, dove la miseria degli anni Cinquanta sembra appartenere alla preistoria.

Ma quel che sta accadendo davvero dentro l’Africa non sembra interessare nessuno, neanche i più progressisti. Da quando «aiutarli a casa loro» è diventato uno slogan di destra (incredibile ma vero) alla sinistra più militante interessano solo le imbarcazioni che solcano il Mediterraneo. Non importa se in termini numerici questi disperati sono una frazione minuscola degli stessi profughi che rimangono in Africa. In Etiopia, per esempio: quattro milioni di rifugiati, fuori dalla portata della Sea Watch e delle altre ong impegnate nel Mediterraneo. Ma sia chiaro: tante altre ong, tanti altri volontari, tante agenzie umanitarie, tanti missionari lavorano in Africa, ed anche nei campi profughi di quel continente. Sono ovviamente più numerosi, quelli che lavorano sul campo in Africa, ma per loro la visibilità mediatica è pari a zero. Non meritano attenzione perché non sono appetibili come simboli per i talk-show, dove conta solo schierarsi pro o contro Salvini.

Tra le cose che mi hanno attirato in quel paese e me lo hanno fatto scegliere, c’è la sua storia particolare. L’Etiopia, come ho già accennato, non entra nella vicenda del colonialismo bianco. Hanno ragione gli etiopi quando insistono a parlare di «occupazione» italiana per sottolinearne la brevità (cinque anni tra il 1936 e il 1941) e quindi la sostanziale irrilevanza rispetto alla lunghissima storia del loro paese. Gli italiani si macchiarono di alcune atrocità, di qualche massacro orribile, ma nulla di troppo diverso da quel che i clan dominanti dell’Etiopia avevano inflitto alle etnìe soggette, alle minoranze sconfitte e occupate nei secoli dei secoli. Perché uno degli aspetti interessanti della storia etiope, è la sua dimensione imperiale antica e autonoma. Altre nazioni africane, quando si liberarono dal giogo coloniale e conquistarono la loro indipendenza (tra gli anni Cinquanta e gli anni Sessanta, per lo più), spesso vollero copiare i colori della bandiera etiope in omaggio al paese che era stato indipendente da sempre. Anche gli intellettuali afroamericani hanno sempre avuto un’ammirazione speciale per l’Etiopia. Bob Marley e la musica reggae giamaicana accompagnano il culto religioso rastafari in cui la figura dell’imperatore etiope Haile Selassie è una divinità. Il fascino di quel vasto territorio è comprensibile: vi nacque la specie umana, lì è stata ritrovata la nostra antenata Lucy, Femina Sapiens di 3,2 milioni di anni fa. La prima sovrana etiope che acquista un posto di rilievo nel nostro immaginario storico-mitologico è la regina di Saba, protagonista dell’incontro col re Salomone. Da quel momento in poi, anche se non si chiama ancora Etiopia né Abissinia, quella parte dell’Africa è culla di imperi indigeni. Potenze autoctone, che intrecciano relazioni con l’Egitto e il Sudan, con l’altra sponda del Mar Rosso (araba), con l’altra sponda dell’Oceano (India).

Studiare la storia etiope serve a vaccinarci dal vizio che perseguita noi occidentali: quello di credere che siamo l’ombelico del mondo. Ovverosia, nella versione politically correct, il dogma per cui ogni sofferenza dell’umanità contemporanea si deve ricondurre alle colpe dell’Occidente, dell’uomo bianco. Basta scavare bene, basta seguire le piste giuste, rispolverare le dietrologie adeguate, e alla fine spuntiamo sempre noi, il nostro colonialismo, il nostro imperialismo, il nostro capitalismo. Solo espiare le nostre colpe, può appagare una sinistra che non apre mai i libri di storia. 

L’Etiopia va fiera dei suoi libri di storia, ma raccontano una vicenda un po’ diversa dai luoghi comuni e dagli stereotipi superficiali. I suoi libri ci ricordano che è esistito un imperialismo africano: aggressivo, prepotente, predatore, molto prima che si affacciasse quello bianco. Le tensioni etniche che attraversano le varie componenti della popolazione etiope non le abbiamo fabbricate noi, è da duemila anni che re e imperatori autoctoni sfruttano i popoli vinti. Lo schiavismo, lo praticano da sempre: anche quello non è un orrore dell’uomo bianco.

Il commercio degli schiavi è più antico di quello dell’oro incenso e mirra, in tutta l’Africa; è sempre stato un sottoprodotto delle guerre di conquista fra potenze locali. Ne divennero grandi intermediari esterni gli arabi, specialisti nella tratta degli schiavi su lunghe distanze, anche intercontinentali. Naturalmente fece un salto di dimensioni quando incrociò la conquista delle Americhe da parte dei bianchi, e la manodopera africana in schiavitù servì il business delle piantagioni di cotone, tabacco, canna da zucchero nel Nuovo Mondo. Ma non c’è nulla che l’Occidente abbia inventato in questo campo: se non l’abolizionismo.

L’Etiopia non può e non vuole attribuire a noi i suoi problemi. Non solo non è mai stata una colonia dei bianchi, ma nella sua storia recente ha scelto per un lungo periodo di agganciarsi all’altro polo, l’anti-Occidente per eccellenza, l’Unione sovietica. Ora rischia di scivolare verso un altro anti-Occidente, la Cina. È dunque un punto di osservazione speciale: la si può attraversare con gli occhi bene aperti, senza avere lo sguardo velato dall’ossessione che in Occidente ci sia l’origine, la spiegazione, la colpa di tutto.

Ma un aggancio molto particolare con la sinistra politically correct risale alla grande carestia etiope sotto Haile Selassie: fu una delle tragedie che diedero origine alla cultura pop-umanitaria. L’ecatombe di bambini etiopi negli anni Settanta, abbandonati a morire di fame da un imperatore che aveva un miliardo di dollari nelle banche svizzere, fu rivelata all’Occidente dallo scoop di un reporter inglese. L’esordio dei musicisti Bob Geldof e Bono come coscienze critiche della gioventù occidentale, le loro campagne per l’Africa, affondano le radici in quegli eventi. Le loro intenzioni sono state nobili e pure, ma l’idea di partenza era sempre quella: noi siamo la causa, noi siamo la soluzione, se soltanto facciamo le cose giuste. Onnipotenti. Nel male e nel bene. Ombelico del mondo.