Presa com’è dalle sue numerose difficoltà – dall’immigrazione alla Brexit, dalle spinte centrifughe interne alle pressioni geopolitiche esterne – l’Europa non si accorge di avere una guerra alle porte. Non la guerra civile libica, che pure minaccia il suo rifornimento energetico e la stabilità dell’intero Mediterraneo, bensì un conflitto più subdolo e strisciante; meno visibile, ma causa potenziale di una crisi infinita. Sconfitti in Siria e in Iraq, gli estremisti islamici che sognano il Califfato e l’avvento di una feroce dittatura religiosa nel nome di Allah investono ora le loro speranze in una regione molto più vicina ai confini europei.
Si tratta di quell’ampio arco di Paesi che si estende lungo la sponda meridionale del Sahara, dalla Mauritania a ovest fino al Ciad a est, passando per il Burkina Faso, il Mali e il Niger, senza trascurare le regioni settentrionali della Nigeria e del Camerun. In tutti questi Paesi sono in corso conflitti armati che vedono una galassia di milizie islamiste, talora numerose e di notevole efficacia operativa, contrapposte a eserciti governativi spesso sgangherati; a contingenti di supporto forniti da altri Paesi della regione; a elementi delle forze speciali Usa in veste di consiglieri militari; e almeno in un caso, il Mali, a caschi blu dell’Onu e a unità militari d’élite inviate dalla Francia.
È una somma di conflitti locali; ma sempre più spesso si sovrappongono e agiscono di concerto: il loro effetto destabilizzante, in contesti sociopolitici precari, è potente. L’intera regione è coinvolta in una crescente crisi umanitaria che nessuno appare in grado di affrontare e le cui potenziali conseguenze per il nostro continente sono fin troppo evidenti. Nell’ultimo biennio la somma delle vittime di queste piccole guerre è stata devastante – oltre quattromila secondo le Nazioni Unite – tra conflitti a fuoco, talora vere e proprie battaglie campali, e attacchi a civili inermi.
La gravità della situazione ha indotto il presidente francese Emmanuel Macron a convocare un vertice che si è svolto a Pau, nei Pirenei, il 13 gennaio scorso e che ha riunito, insieme a lui, i governanti dei cinque Paesi maggiormente coinvolti, il cosiddetto G5. A parte l’annuncio dell’invio di altri 220 soldati francesi, non sono da registrare risultati di rilievo. È significativo che dai partner europei, alcuni dei quali (l’Italia) hanno punti di vista molto diversi da quello di Parigi sulla situazione nordafricana e in particolare sulla crisi libica, la questione venga di fatto considerata un problema francese che non li riguarda più di tanto.
I Paesi del Sahel, la vastissima regione semiarida che costeggia il Sahara a meridione, dalla sponda atlantica al Sudan, sono da sempre, strutturalmente, esposti e fragili. L’avarizia della natura, la scarsità d’acqua e di risorse, condanna le loro economie alla povertà e gli abitanti a pratiche agricole e pastorali, spesso nomadi, di pura sussistenza. Negli ultimi decenni sono stati vittima di ricorrenti siccità. Con il nuovo secolo un concorso di fattori ha contribuito all’addensarsi di quella che appare ormai come una tempesta perfetta. Il vento di scontento che ha travolto i regimi dell’Africa araba ha soffiato anche qui, provocando in alcuni casi violenti cambiamenti politici.
Come altrove nell’Africa musulmana, la propaganda islamista ha trovato terreno fertile in seno a società prive di prospettive e a gioventù che disperano di riuscire a migliorare la propria sorte. Il diffuso fallimento economico ha accentuato la trasformazione delle rotte commerciali attraverso il Sahara in una rete criminale dove si traffica di tutto, dalle armi alle vite umane, e di cui i Paesi del Sahel costituiscono il terminale sud. A partire dal 2011, il crollo del regime di Gheddafi in Libia ha riversato a meridione le formazioni armate che lo avevano fiancheggiato ottenendone in cambio favori e protezione. Facendo leva su antichi scontenti, sul ricordo di passate insurrezioni armate e sul nuovo modello di Islam estremista e armato fornito da Al Qaeda e dall’Isis, l’anno seguente esse hanno travolto il Mali, arrivando quasi in vista della capitale e causando l’inizio dell’intervento francese.
Da allora le milizie islamiste del nord del Mali, respinte e contenute ma mai definitivamente sconfitte, son diventate un fattore di instabilità permanente. Nell’ultimo scorcio del 2019 la loro attività militare si è intensificata, causando perdite anche nei ranghi del contingente francese. Soprattutto, sono diventate un esempio per gli altri movimenti estremisti della regione. Il Paese maggiormente bersagliato dagli attacchi delle formazioni che si richiamano all’Isis è adesso il Burkina Faso. L’Onu ha nominato un inviato speciale nella regione, il ghanese Mohamed Ibn Chambas, il quale non fa che lanciare allarmi inascoltati e aggiornare in rialzo i bilanci delle vittime. In Burkina Faso il totale è passato da circa 80 morti nel 2016 a 1800 nel 2019. La strategia dei fanatici musulmani è quella del puro terrore: attaccano mercati di villaggio, chiese, scuole, lasciando sul terreno più corpi che possono prima di ritirarsi. Le forze governative appaiono del tutto insufficienti a far fronte alla sfida.
Per la prima volta a fine 2019 le rivendicazioni di queste azioni militari in Mali e in Burkina Faso sono venute da una stessa organizzazione, lo «Stato islamico del Grande Sahara» o ISGS nella sigla in inglese, di esplicita affiliazione all’Isis. Di qui la preoccupazione dei francesi, che dopo sette anni di presenza armata in Mali – con 4500 uomini, senza contare gli oltre 13’000 caschi blu – sono costretti a constatare la relativa inefficacia della loro missione. E l’ansia comincia a serpeggiare nelle diplomazie e tra i responsabili delle strategie della sicurezza europea: cresce il timore che il Sahel precipiti nel caos, che le insurrezioni dei diversi Paesi si saldino tra di loro e alla criminalità che controlla i traffici trans-sahariani, che la violenza sempre più diffusa generi nuove ondate migratorie dirette alle sponde d’Europa.
Dal punto di vista geopolitico, la partita mortale che si sta giocando nel Sahel è ancora più importante. Per le sparse forze che si richiamano all’Isis, è evidente che dopo la sconfitta in Iraq e in Siria questo è diventato il fronte principale della loro azione. Per gli occidentali, invece, è qui che si apre nei fatti la frattura tra europei e americani. Negli anni di Obama, gli strateghi del Pentagono avevano individuato in questa regione un baluardo da sorvegliare e difendere. Una grande base militare con migliaia di uomini e una struttura di comando erano state create in Niger. Ma Trump appare determinato a invertire questa strategia. Come altrove nel Vicino Oriente e in Afghanistan, sta riducendo significativamente la presenza militare americana nel mondo. I focolai di terrorismo intorno al Mediterraneo non lo interessano: se ne occupino semmai gli europei, con i quali ha aperto da tempo un contenzioso sui costi della difesa comune. Per questo, che lo vogliano o no, i governi d’Europa – e non solo quello francese – dovranno presto mettere il Sahel nei loro ordini del giorno.