Equilibri rotti in Medio Oriente

Dopo la decisione di Trump – Decenni di cautela americana sulla questione di Gerusalemme non hanno fermato il presidente Usa nel proposito di attuare una decisione definita «coraggiosa» dal premier israeliano
/ 18.12.2017
di Marcella Emiliani

Nei vecchi Accordi di Oslo, siglati nel 1993 da Yitzhak Rabin e Yasser Arafat, con gli Stati Uniti di Bill Clinton quali garanti al di sopra delle parti, erano fondamentali due punti cardine ritenuti imprescindibili per raggiungere la pace tra israeliani e palestinesi: il riconoscimento politico reciproco tra lo Stato di Israele e la nascente Autonomia Nazionale Palestinese (Anp), in secondo luogo la necessità di procedere assieme, step-by-step, ad affrontare quelle che venivano chiamate le red lines, le linee rosse che nessun negoziato preparato a tavolino sarebbe stato in grado di sbrogliare tanto erano complicate e pericolose. Si trattava della definizione dei confini dello Stato ebraico e di quello palestinese, dello sfruttamento delle risorse idriche, della colonizzazione ebraica dei Territori Occupati, del diritto al ritorno dei rifugiati palestinesi ed infine dello statuto futuro di Gerusalemme.

Non a caso Gerusalemme era stata lasciata per ultima perché – come scrigno dei luoghi sacri di ebraismo, cristianesimo e islam – il suo valore simbolico era talmente alto da costituire una bomba ad orologeria pronta a scoppiare sotto qualsiasi tavolo negoziale qualora le parti non fossero riuscite a trovare un’intesa chiara e soddisfacente su tutte le cinque red lines. Quell’intesa non è mai stata trovata, gli Accordi di Oslo sono falliti, e le linee rosse sono diventate mura invalicabili che separano oggi più di ieri israeliani e palestinesi. Ma sono sempre lì a ricordare che costruire la pace tra israeliani e palestinesi è un’impresa molto, molto complessa.

Quando il 6 dicembre scorso il presidente degli Stati Uniti Donald Trump ha annunciato «di riconoscere ufficialmente Gerusalemme come la capitale d’Israele», avvallando quindi la promessa elettorale di spostare l’ambasciata americana in Israele da Tel Aviv a Gerusalemme, ha letteralmente buttato all’aria sia le carte diplomatiche che il tavolo da gioco. In pratica ha riconosciuto che Gerusalemme rimarrà «unita e indivisibile» in eterno, come recita la Jerusalem Law, la legge fondamentale israeliana votata dal parlamento nel 1980 che ha ufficialmente annesso Gerusalemme Est conquistata con la guerra dei Sei giorni del 1967 e ne ha fatto la sede di tutte le istituzioni dello Stato.

Il riconoscimento di Gerusalemme potrebbe essere la contropartita per ottenere da Netanyahu qualche concessione nella futura sede negoziale con i palestinesi

Tutti sanno che l’annessione di Gerusalemme Est in realtà è cominciata fin dal 7 giugno 1967 quando il generale Motta Gur dichiarò alla radio: «Il Monte del Tempio è nelle nostre mani», quando cioè tutta la cosiddetta Città Vecchia cadde sotto il controllo dell’esercito israeliano, che la strappò alla Giordania di re Hussein. Ma proprio perché si trattava di un territorio conquistato con le armi (al pari della penisola del Sinai, della Striscia di Gaza, della Cisgiordania e delle Alture del Golan), per la legge internazionale non poteva essere occupato stabilmente e tantomeno annesso allo Stato di Israele. E infatti, sempre nel 1980 il Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite, con la risoluzione n. 478, invitava tutte le rappresentanze diplomatiche a non trasferire le ambasciate a Gerusalemme, perché Gerusalemme Est come gli altri Territori occupati doveva essere restituita.

Da allora sebbene tutti sappiano che Gerusalemme è di fatto la capitale unita di Israele, nessuno Stato ha trasferito la propria sede diplomatica a Gerusalemme, nemmeno gli Stati Uniti che pure nel 1995 – presidente Bill Clinton – hanno riconosciuto Gerusalemme quale capitale di Israele, ma poi ogni sei mesi hanno sempre dilazionato il trasferimento dell’ambasciata con l’Executive Waiver che consente al presidente di sospendere una legge votata dal Congresso. E probabilmente succederà ancora se il segretario di Stato Tillermann si è affrettato a chiarire già il 7 dicembre che per il trasloco ci vorrà tempo. Ma ormai la bomba era scoppiata. Mentre infatti il premier israeliano Netanyahu esultava salutando le dichiarazioni Trump come «un atto coraggioso» e «una pietra miliare storica», i palestinesi, gli arabi e i musulmani davano fondo a tutta la loro rabbia e al loro rancore.

A loro giudizio Trump il 6 dicembre ha bellamente ignorato il diritto internazionale e tutte le linee rosse, buttato a mare il principio che fino ad oggi ha retto ogni negoziato tra le due parti, ovvero «terra in cambio di pace» e si sarebbe appiattito sulle posizioni israeliane, ergo gli Stati Uniti non possono più essere considerati degli honest brokers per quel piano di pace israelo-palestinese che pure il presidente americano ha annunciato come imminente. Trump in altre parole non avrebbe tenuto conto né delle posizioni né dei rapporti di forza tra Israele (uno Stato forte) e Autonomia nazionale palestinese (un aborto di Stato debolissimo e diviso, nonostante la riconciliazione tra Hamas e la stessa Anp). Prima di annunciare la sua decisione non ha convocato le due parti ad un tavolo negoziale, anzi si è vantato di aver riconosciuto «quanto era già evidente», Gerusalemme di fatto capitale di Israele, per velocizzare un eventuale processo di pace perché – parole sue. «Non possiamo risolvere i problemi continuando a replicare le strategie fallimentari del passato».

I primi a scendere in strada sono stati i palestinesi, con Hamas in testa, che hanno lanciato la Terza Intifada continuando a scontrarsi a Gerusalemme e in Cisgiordania con l’esercito israeliano. Bilancio provvisorio: 4 morti e 1795 feriti. Dalla Striscia di Gaza sono anche partiti diversi missili, uno dei quali ha raggiunto la cittadina israeliana di Sderot, con l’inevitabile ritorsione dell’aviazione israeliana. Ma arabi e musulmani sono scesi in piazza in tutte le capitali del Medio Oriente, del mondo islamico in Africa e Asia, in Europa e negli stessi Stati Uniti. Mentre bandiere americane e foto di Trump andavano a fuoco in mezzo mondo, le minacce più incendiarie contro gli Usa e Israele arrivavano dalla Turchia e dall’Iran. La Guida suprema iraniana, l’ayatollah Ali Khamenei, ha annunciato la «liberazione della Palestina» tutta, candidandosi a guidare un ipotetico fronte della resistenza. La stessa aspirazione ha mostrato di averla anche il presidente turco Recep Tayyip Erdoğan che domenica 10 dicembre si è lasciato andare ad affermazioni parecchio pesanti, del tipo: «Non abbandoneremo mai Gerusalemme alla mercé di uno Stato terrorista che uccide i bambini».

In tutti i casi Erdoğan il 13 dicembre ha convocato un vertice d’urgenza dell’Organizzazione per la cooperazione islamica (Oci), dove in pratica ha invitato i rappresentanti dei 57 paesi convenuti ad opporre fatti compiuti a chi è maestro di fatti compiuti: Israele e gli Usa di Trump. Nella stessa logica lo stravolto presidente dell’Anp, Abu Mazen, ha annunciato di ripudiare d’ora in poi la mediazione americana. Il comunicato finale del vertice ha così raccomandato a tutti gli Stati del mondo di «riconoscere lo Stato della Palestina e Gerusalemme Est come sua capitale occupata», delegando l’Onu a ripristinare lo status legale della stessa Gerusalemme. Ma al di là di parole tanto risolute, i paesi arabi sembrano voler procedere coi piedi di piombo. Primo fra tutti l’Arabia Saudita.

Riad per l’occasione ha mantenuto un profilo assolutamente basso con un comunicato ufficiale della famiglia reale che definiva «ingiustificato e irresponsabile» l’annuncio di Trump del 6 dicembre. E forse la chiave di tanto stravolgimento regionale e internazionale sta proprio a Riad. Non a caso l’unico Stato arabo citato dal presidente Usa nel suo annuncio è stato proprio l’Arabia Saudita. Visti gli ottimi rapporti tra l’erede al trono Mohammed bin Salman e Trump è probabile che l’ardimentoso MbS abbia garantito al presidente Usa che erogherà ai palestinesi tutti gli aiuti finanziari necessari a far loro digerire una Oslo Due orchestrata appunto da Riad e Washington col favore di Israele.

Il riconoscimento di Gerusalemme quale capitale dello Stato ebraico sarebbe stato dunque la contropartita per ottenere da Netanyahu qualche concessione nella futura sede negoziale coi palestinesi, tanto più quanto in questo momento Stati Uniti, Israele e Arabia Saudita hanno un acerrimo nemico in comune, l’Iran. È in questo contesto che va valutato anche l’accenno molto sfuggente e impreciso fatto da Trump nel suo fatidico discorso alla soluzione dei due Stati – che ha detto di condividere –, Stati i cui confini dovrebbero essere disegnati «consensualmente fra le parti», lasciando aperto anche uno spiraglio sul futuro statuto di Gerusalemme. Ma sulle altre red lines ha taciuto e ha lasciato ben poco spazio di manovra al povero Abu Mazen, oggi più debole che mai in un Medio Oriente in fiamme.