Se tutte le strade portavano a Roma, quasi tutti i gasdotti portano a Mosca. E in futuro? Per riflettere sulle conseguenze della nuova politica energetica europea, abbozzata nel corso dei vertici con Biden a Bruxelles, è bene partire dal significato profondo di un antico proverbio. «Tutte le strade portano a Roma», lo abbiamo appreso da bambini, lo ripetiamo senza sempre riflettere sull’origine della frase. Le infrastrutture fisiche creano legami forti, una dipendenza da cui è difficile liberarsi. I romani lo sapevano bene. La grande cura con cui costruirono strade e ponti, molti dei quali rimasero in piedi per secoli o addirittura fino ai nostri giorni, non fu solo un exploit di abilità ingegneristica. Dietro c’era anche una strategia geopolitica. Costruendo reti di strade che irradiavano dalla capitale dell’impero alle periferie, creavano canali preferenziali di comunicazione, per il transito di beni e persone. Le loro magnifiche infrastrutture facilitavano e rendevano fluidi i traffici tra le colonie e il centro; al tempo stesso «obbligavano» le economie periferiche a rivolgersi verso Roma. C’era anche la funzione militare, le strade venivano percorse dalle legioni.
Il modello romano è quello cinese. Questa funzione delle infrastrutture è ben nota ai dirigenti di Pechino che hanno pianificato i progetti titanici delle Nuove vie della seta (ufficialmente Belt and road initiative) pensando anche a quello: la costruzione di imponenti reti infrastrutturali di trasporto e comunicazione crea solidi legami di dipendenza reciproca da cui poi diventa difficile prescindere. Il network di gasdotti e oleodotti fra la Russia e l’Europa ha una funzione simile. Crea dipendenza, sempre reciproca come quasi tutte le dipendenze: l’Europa ha bisogno dell’energia russa, Mosca ha bisogno della valuta europea e anche del know how tecnologico occidentale per il buon funzionamento della propria industria energetica. Queste infrastrutture sono pesanti in molti sensi, hanno richiesto investimenti cospicui e anni di costruzione. Alcune risalgono alla prima guerra fredda: per quanto i rapporti est-ovest fossero tesi, non impedirono importanti progetti di cooperazione che traversavano la cortina di ferro. Anche allora la Germania aveva il ruolo di uno snodo nevralgico, con la sua Ostpolitk che promuoveva gli scambi commerciali con il blocco avversario. Il segretario del Partito comunista sovietico Leonid Brezhnev e il cancelliere socialdemocratico tedesco Willy Brandt, fautore della Ostpolitik, dialogavano nel periodo più buio della guerra fredda.
Per molti decenni le turbolenze del Medio Oriente fecero apparire l’Unione sovietica e poi la Russia come un partner ben più affidabile e sicuro rispetto alla Libia o all’Irak. Nel primo shock petrolifero (1973) l’intero mondo arabo si era accanito contro l’Occidente per castigarci dell’appoggio a Israele. L’Urss con i suoi contratti di fornitura a lunga scadenza era meno imprevedibile. Vladimir Putin sta distruggendo quel che i dirigenti sovietici non eliminarono mai: un cordone ombelicale. L’Europa inizia – molto lentamente e anche dolorosamente, con costi elevati – a girarsi verso l’Atlantico anche per il proprio approvvigionamento energetico. Ci vorrà tempo perché l’Unione europea costruisca nuovi rigassificatori per usare il gas americano, però certe scelte e certi investimenti avviati oggi daranno frutto in qualche anno. Viene sbloccato anche un gasdotto che era incompiuto, EastMed, collegamento fra Italia e Israele. L’azienda italiana Snam forse riuscirà ad affittare navi che fungono da rigassificatori, per agevolare importazioni da paesi come gli Stati Uniti o perfino l’Australia. Per il petrolio la riconversione geografica delle fonti è un po’ più facile perché già oggi buona parte del greggio viaggia su navi. Arabia saudita ed Emirati hanno ampie capacità inutilizzate.
Si delinea un futuro più «atlantico» con tutto quel che comporta. Una volta avviati questi investimenti per la riconversione geografica delle forniture, si creano una nuova realtà, nuovi interessi materiali. Tutte le strade portavano a Mosca, in futuro una parte delle strade dell’energia traverseranno l’Atlantico e altri mari. Le infrastrutture costruite, per esempio i nuovi rigassificatori, costituiranno altrettanti vincoli e condizionamenti. Putin avrà reso l’Europa più atlantica non solo in senso politico, ma anche per l’orientamento delle sue infrastrutture energetiche.
Non è una svolta repentina e neppure totale. Nessuno andrà a distruggere con cariche di dinamite i gasdotti esistenti che collegano alla Russia. Nord Stream 2, costruito con importanti investimenti tedeschi, resta congelato e inutilizzato, una «cattedrale nel deserto», ma non scompare. E se cambiasse il regime di Mosca? In futuro una parte dei flussi di energia potranno tornare lungo la direttrice est-ovest. Ma quale cambiamento politico sarebbe necessario per rassicurare l’Europa? Non basta immaginare un golpe di palazzo che porti al Cremlino qualche altro ex dirigente del Kgb; forse neppure una rivoluzione popolare, se questa dovesse sfociare in una democrazia nazionalista. La risposta deve guardare con lucidità al passato della Russia e dell’Europa.
La nazione russa è malata da secoli, la sua ossessione dell’accerchiamento ha fatto pagare prezzi insopportabili ai suoi vicini. Ha fallito molti tentativi di modernizzazione (inclusi quelli dei due grandi zar Alessandro e Caterina); ha sempre cercato rivincite e compensazioni in avventure imperiali di conquista. Ha accumulato territori di una vastità unica, eppure si è sempre sentita vulnerabile alle invasioni (e talvolta ne ha subite di devastanti). Ha reagito alla propria insicurezza con una cultura del risentimento, ha voluto rassicurarsi a spese dei vicini, ha costruito un culto della propria missione messianica, cristiana o comunista. Questi sono mali profondi dai quali la nazione Russia dovrà prima o poi curarsi.
Putin non è un’anomalia, Putin è un prodotto delle antiche patologie russe. Guarirne non è impossibile: il modello a portata di mano è la Germania post-nazista, che ha costruito una nuova cultura nazionale, liberaldemocratica e pacifista, rispettosa dei vicini. Così come l’Unione europea nasce dalla riconciliazione franco-tedesca, allo stesso modo un giorno andrà costruita una riconciliazione russo-ucraina. A patto però che la Russia in quanto nazione riconosca le sue colpe storiche, così come la nazione tedesca è stata capace di farlo. Anche noi avremo un ruolo, l’Occidente potrà agevolare questo processo: a suo tempo l’America agevolò la costruzione di una liberaldemocrazia tedesca. Il grosso del lavoro dovranno farlo i russi, però. Non li si aiuta affatto indulgendo nelle narrazioni vittimistiche secondo cui «è tutta colpa dell’Occidente». Al contrario chi si ostina a colpevolizzare l’Occidente continua a rinviare la presa di coscienza che la nazione russa dovrà affrontare.