L’oleodotto russo Druzbha resterà aperto anche in futuro (Keystone)


Embargo parziale sul petrolio russo

Guerra in Ucraina - L’Unione europea ha approvato il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia, ma è stata costrettadal recalcitrante premier ungherese Orban a rinviare all’anno prossimo la rinuncia al greggio russo e solo per due terzi
/ 06.06.2022
di Paola Peduzzi

L’Unione europea ha approvato il sesto pacchetto di sanzioni contro la Russia e per la prima volta è riuscita a trovare un’intesa sull’embargo petrolifero, così come per la prima volta le divisioni tra i paesi europei si sono viste in modo nitido. Il tempo che passa e il costo della guerra che cresce ha ridimensionato lo slancio solidale nei confronti dell’Ucraina che c’era agli inizi. Se poi la presidente della Commissione, Ursula von der Leyen, non avesse annunciato questo embargo un mese fa alzando di moltissimo le aspettative e proiettando un fascio di luce su questa misura sanzionatoria e sulla conseguente lentezza, probabilmente ora noteremmo di meno le crepe nell’iniziativa collettiva europea. E certo, se l’Ungheria di Viktor Orban non si fosse, come sempre, messa di mezzo con l’ennesima operazione di sabotaggio (e seguente «trollaggio») delle misure europee, l’accordo sul sesto pacchetto sarebbe stato raggiunto più in fretta e sarebbe stato più corposo. Ma queste fragilità non devono cancellare il fatto che, per l’Europa, restiamo comunque in un momento straordinario.

Il sesto pacchetto di sanzioni copre più dei due terzi delle importazioni petrolifere dalla Russia, tagliando così un’enorme (la principale) fonte di finanziamento per la macchina da guerra di Vladimir Putin. L’embargo entrerà in vigore tra sei mesi (che è un tempo lungo), con l’eccezione degli oleodotti, che valgono appunto per un terzo delle importazioni, e tutte le discussioni sul divieto per le navi europee di trasportare greggio russo non hanno portato a nulla; anche il divieto di fornire assicurazioni e altri servizi alle petroliere che trasportano petrolio russo sarà applicato tra sei mesi. Nel pacchetto ci sono le sanzioni contro i trust, l’esclusione dal sistema di pagamenti internazionali Swift di Sberbank e altre due banche, il divieto per tre emittenti televisive di proprietà dello Stato russo di trasmettere in territorio europeo e più di altri cento oligarchi, funzionari e militari nella lista nera europea.

Orban è tornato a Budapest con il massimo risultato. Dopo aver rallentato il negoziato e posto più volte il veto costringendo gli altri paesi a elaborare esenzioni su esenzioni, il premier ungherese ha alzato di nuovo la posta: non si è accontentato né di avere due anni in più a disposizione per applicare l’embargo né della promessa di centinaia di milioni di euro per ristrutturare le sue infrastrutture energetiche. Così Orban ha ottenuto un’esenzione totale di fatto e, con tutta probabilità, permanente: l’esclusione degli oleodotti dall’embargo. Questa esclusione ha più di un effetto. Per esempio: l’oleodotto Druzhba ha due ramificazioni, una che va verso l’Ungheria, la Slovacchia e la Repubblica ceca, ma un’altra che va verso la Polonia e la Germania, e quindi questo avrebbe un impatto anche sul governo tedesco, che è il più riluttante nei confronti dell’embargo, non tanto sul farlo (vuole farlo) ma su quando farlo. In più alcuni paesi temono che l’Ungheria possa rivendere carburante prodotto con il petrolio russo a basso costo facendo concorrenza (sleale) al resto dell’Unione, costretta a comprare il petrolio a prezzi più alti.

L’ostilità di Orban non è affatto a costo zero né confinata in Ungheria. E non soltanto perché il premier ungherese appena rientrato a Budapest ha ironizzato sulla debolezza europea e sulla sua forza, ma anche perché l’eccezione cambia gli equilibri dentro l’Ue, creando una distorsione sul mercato e nella politica. Tant’è vero che secondo alcune fonti, Bruxelles sta già correndo ai ripari: se l’Ungheria non accettasse di estendere prossimamente l’embargo agli oleodotti, si potrebbero imporre dei dazi sul petrolio russo – basterebbe un voto a maggioranza. E comunque gli aiuti promessi su gasdotti e raffinerie devono passare dal Pnrr ungherese, che però è ancora bloccato: c’è tempo fino alla fine dell’anno, ma Budapest rischia, se non si apre ad alcune concessioni, di perdere i fondi sulle sue infrastrutture energetiche e pure i 7,2 miliardi di euro del Recovery fund.

Le crepe, insomma, sono molto visibili. Poi c’è l’eccezionalità. L’editorialista americano Thomas Friedman ha scritto sul «New York Times» che, arrivando in Europa, ha capito molte cose che, pur stando negli Stati Uniti molto battaglieri, non aveva capito: l’urgenza di difendersi, la capacità di trasformarsi velocemente per adattarsi a una nuova, pericolosissima sfida. Friedman cita la Germania, che per noi europei è un freno a tratti incomprensibile – il cancelliere Olaf Scholz ha una retorica molto potente di condanna alla Russia e di solidarietà all’Ucraina cui però segue una cautela quasi cinica quando si tratta di prendere contromisure efficaci ma costose – e che invece vista da fuori appare come un paese che aveva fatto del disarmo la propria caratteristica ma che oggi s’è incamminata sulla sua più grande e operativa riforma delle sue forze militari. Friedman cita anche la Finlandia e la Svezia, che non avevano alcuna intenzione di uscire dal proprio status di neutralità e che ora vanno di fretta con la loro adesione alla Nato. Se in America il sentirsi sotto attacco suona come un espediente retorico, in Europa è invece una realtà, e questo ha reso di nuovo la politica europea eccezionale. E anche pronta a non accusarsi troppo a vicenda, cioè a compensare le diversità in modo più costruttivo. La premier estone Kaja Kallas, che guida un paese che ha costruito la propria indipendenza energetica dalla Russia in soli tre mesi e che mostra con convogli quotidiani di aiuti il proprio sostegno all’Ucraina, ha detto in sostanza: meglio questo che niente. Meglio non litigare troppo e trovare un accordo rapidamente che poi, esausti, non riuscire a fare nulla. L’obiettivo è insistere, non vacillare troppo, non mostrare fuori le fragilità interne, non offrire a Putin quel che va cercando dall’inizio della sua guerra: un punto di rottura su cui fare leva per spaccare il fronte occidentale. La Russia sta già guadagnando sul campo di battaglia quel che finora non aveva ancora ottenuto, l’Europa non vuole darle altri vantaggi. E questo, pur con gli acciacchi, i lividi, le ondate di pessimismo che ci prendono quando realizziamo che un embargo petrolifero previsto per il 2023 significa che ci mancano almeno altri sei mesi di guerra – pur con la paura dei prezzi che stanno esplodendo e delle razzie russe che privano tutto il mondo di risorse indispensabili, questo resta eccezionale.